Trenta raid in meno di 24 ore è la risposta saudita all’attacco di martedì: per la prima volta dall’inizio dell’operazione anti-sciita “Tempesta Decisiva”, Riyadh si è ritrovata la guerra in casa. Perché, se nelle settimane passate i ribelli Houthi hanno colpito il confine con l’Arabia Saudita, martedì quella frontiera è stata superata. Razzi Katiusha sono piovuti sulla città di Najran provocando tre morti e decine di feriti.

Le autorità di Riyadh hanno chiuso le scuole e sospeso i voli da e verso l’aeroporto. Poco dopo la rappresaglia militare: il nord ovest dello Yemen (le province di Saada, Hajjah e Dhamar) è stato preso di mira dall’aviazione della famiglia Saud, che ha colpito anche l’aeroporto militare di al-Anad, nella provincia meridionale di Lahij. Secondo fonti Houthi, solo ieri sarebbero morte 43 persone.

Al conflitto si affianca infatti la guerra dei numeri: chi uccide più civili? Letteralmente un gioco al massacro. Ai 43 morti provocati dai raid della coalizione secondo gli sciiti, Riyadh risponde accusando i ribelli di aver ucciso 32 persone che stavano fuggendo via mare dal porto di Aden. I miliziani avrebbero aperto il fuoco contro un’imbarcazione carica di civili intenzionati a fuggire dagli scontri e dalla fame che assedia Aden.

Secondo i soccorritori, a morire al porto ieri sono state almeno 80 persone nella guerriglia tra Houthi e forze fedeli al presidente fuggitivo Hadi. L’obiettivo è il controllo del quartiere di al-Tawahi, roccaforte dei fedelissimi di Hadi, sede dell’emittente Aden Tv, del palazzo presidenziale e degli uffici governativi. Un obiettivo centrato ieri sera: i ribelli sciiti hanno preso il quartiere e occupato i centri del potere. Altro schiaffo ai sauditi.

La violenta reazione di Riyadh è il chiaro specchio delle umiliazioni subite. L’attacco Houthi ad una città a 35 km dal confine,non solo mostra con chiarezza la capacità militare sciita (non intaccata da un mese di bombardamenti) ma anche il fallimento della strategia bellica della coalizione. La petromonarchia ne esce male: dopo 1.260 morti, migliaia di feriti e 300mila sfollati, la ribellione Houthi non è placata e diventa una minaccia anche alla sicurezza interna del regno. Che in Yemen si gioca una buona fetta di interessi economici e influenza politica: perdere il controllo del piccolo paese, da sempre dipendente da aiuti sauditi e importazioni di beni primari e quindi schiavo delle politiche dei Saud, rappresenterebbe un terremoto per i fragili equilibri regionali.

Un’eventualità che neppure gli Stati uniti possono permettersi. Washington ieri ha fatto scendere in campo il segretario di Stato Kerry, poco “fortunato” nella risoluzione dei conflitti mediorientali. Kerry, arrivato ieri in Gibuti, sta lavorando per giungere ad una «pausa» dei bombardamenti (già promessa lunedì dal ministro degli Esteri saudita e di cui Kerry discuterà con i Saud oggi a Riyadh), ovvero un cessate il fuoco temporaneo a fini umanitari. Ma soprattutto ha annunciato l’invio di 68 milioni di dollari in aiuti per coprire i bisogni immediati della popolazione civile.

Quei 68 milioni sono due volte e mezzo la donazione Usa al Nepal (che ne riceverà 26). Una somma consistente, ma il gioco vale la candela: il controllo della porta verso l’Europa del greggio del Golfo.