«Ho fatto ciò che potevo, mi sembra sufficiente, non voglio essere paragonato ai maestri del passato (…) Sono schiavo del mio lavoro, cerco sempre l’impossibile. Non mi restano molti anni da vivere, ma devo dedicare tutto il mio tempo alla pittura, trovare qualcosa di valido…».
È un Claude Monet anziano quello che scrive queste lettere nel 1918, giunto agli sgoccioli della sua esistenza, con una vita costellata di lutti (prima Camille, poi l’amatissima Alice e, infine, anche il figlio Jean, nel 1914). Un uomo che si sente l’unico superstite di un gruppo di amici – nel 1919 perderà anche Renoir e con lui tutti gli echi della giovinezza, come confesserà costernato. Eppure, nonostante l’età avanzata, ha solo una ossessione: superare ogni acciacco, rimettersi dalle malattie, dai difetti della vista, dai dolori alle ossa per riprendere in mano la sua palette e scendere all’aperto, vicino allo stagno con le sue ninfee, per dipingere.

È A GIVERNY, infatti, che si compie la sua parabola artistica, precipitando in quel disfacimento del colore e delle forme che oggi vediamo all’Orangerie. «Non sono un pittore straordinario. Faccio ciò che posso per trasmettere ciò che provo davanti la natura». E Monet riconosceva di commettere degli «errori visivi», se ne doleva addirittura, immaginando che quel suo ignorare le regole non lo portasse poi così lontano nell’arte sua.

DOVE INVECE SIA ARRIVATO con i colori e l’osservazione maniacale della luce (rimaneva ore e giorni di fronte allo stesso soggetto per cogliere tutte le mutazioni e i riverberi, dipingendo, sfinito, molteplici tele) lo si può cogliere nel docu-film Io e Monet di Phil Grabsky, nelle sale italiane oggi e domani, per il ciclo Grande Arte al Cinema di Nexo Digital.

ninfee
Non è un biopic né un’opera di fiction, ma un collage di tremila lettere che vengono lette e interpretate dall’attore britannico Henry Goodman, mentre sullo schermo scorrono paesaggi «vissuti» e paesaggi reinventati dal pittore. Il risultato è un ritratto intimo, che entra nelle pieghe di un’esistenza eccentrica, in cui si alternano cupe disperazioni (soprattutto negli anni della miseria economica, alla nascita del primo figlio quando veniva cacciato dalle pensioni «senza neanche una camicia») e gioie immense. Di fatto, Monet mescola relazioni sentimentali e pittura senza poter mai prescindere né dalle une né dall’altra. Viene sopraffatto dall’ammirazione per Venezia, cerca di diradare la bruma di Londra, brama il letto esausto quando dipinge più e più volte la cattedrale di Rouen tanto da avere gli incubi di notte e vedersela crollare addosso, si blocca nell’angoscia per mesi alla morte della moglie Alice. Litiga con il grande mercante Paul Durand-Ruel quando quest’ultimo porta molte sue tele in America e non fa sapere più niente (anche se poi riconoscerà che «senza di lui, saremmo morti di fame»).

COME SPESSO RIVELA, il suo metodo è «procedere a tentoni», inseguire i capricci della luce, anche dalle 4 del mattino fino alle sette di sera. L’acqua, dal porto di Le Havre a Entretat fino alle ninfee che galleggiano a Giverny, è l’elemento principe, il più ricercato dall’artista, forse più ancora dell’aria. Così come i fiori – papaveri, agrimonie gialle e bianche, gigli, peonie giapponesi – che Monet faceva piantare per creare aiuole e giardini da immortalare a proprio piacimento. Nel film, si entra letteralmente dentro cento dipinti ripresi in alta definizione e si torna nei luoghi attraversati dall’inquieto spirito di Claude Monet, guardando gli stessi scorci sul mare, le scogliere, i ponti, i tramonti e le sue albe.