Quando i militari egiziani hanno destituito l’unico presidente eletto in Egitto il 3 luglio scorso avevano forse in mente uno dei principi democratici che ha motivato le rivolte del 2011? «La classe dirigente deve rispondere alla volontà del popolo»: era una delle richieste dei manifestanti, scesi in piazza nei 18 giorni che hanno portato alla deposizione di Mubarak, l’11 febbraio 2011. In altre parole, dopo 30 anni di autoritarismo, gli egiziani chiedevano ai propri dirigenti di assumersi le responsabilità delle decisioni politiche, permettendo una certa trasparenza nella governance pubblica.

Per questo, un politico come Morsi, che in pochi mesi non ha saputo far ripartire l’economia e non ha avviato un dialogo esaustivo con i movimenti secolari, doveva essere rimosso. E così in fretta e furia l’esercito, che ha sempre cavalcato il populismo in ogni momento della storia egiziana, ha adottato una campagna di raccolta firme per le dimissioni di Morsi e ha proceduto al suo arresto. In questo modo il principio di accountability in Egitto è diventato immediatamente esecutivo, senza passare per le urne. Questo è il grave errore compiuto dall’esercito. I militari hanno contribuito a esasperare le divisioni della società egiziana tra laici e islamisti. Un segno di debolezza rispetto ai colpi di stato del 1919, 1952 e del 2011 quando non avevano incontrato alcuna resistenza politica.

Il generale Abdel Fattah Sisi, capo delle forze armate e ministro della Difesa, ha commesso degli errori. Gli interventi dei militari in contesti caotici sono stati sempre motivati da due principi: il ritorno immediato all’ordine e un numero limitato di vittime. È ancora presto per dire se questi due principi verranno rispettati. Di sicuro però il ritorno all’ordine non è stato immediato tanto che a quasi 40 giorni dal colpo di stato le piazze delle principali città egiziane sono ancora occupate. E poi, la strage del 26 luglio scorso, quando hanno perso la vita oltre 80 persone in scontri tra polizia e islamisti, ma ancora di più il bagno di sangue che si prevede in caso di sgombero delle piazze, non fanno ben sperare sul numero limitato di vittime. Se l’ordine non torna e il caos persiste oppure se si ritorna all’ordine con un alto numero di vittime, l’esercito ha fallito. Per questo, se fino a ora il golpe del 3 luglio scorso è stato letto come un fallimento per i Fratelli musulmani (e da un punto di vista politico, temporaneamente, lo è), potremmo presto parlare del declino dell’esercito, che abbandonato dal suo popolo per l’incapacità a ripristinare la stabilità sarà ritenuto «responsabile» della crisi.

Quanto i militari siano in difficoltà lo dimostra un’inedita dichiarazione del ministro Sisi che in un’intervista al Washington Post ha chiesto agli Stati Uniti di fare pressione sui Fratelli musulmani per terminare l’occupazione dello spazio pubblico. In verità, a indebolire l’esercito è anche l’ambiguo giudizio internazionale sul golpe.
Dopo la deposizione di Hosni Mubarak, l’11 febbraio 2011, nessun capo di stato si era sognato di chiedere di visitare il deposto presidente. Oggi invece, da Catherine Ashton al ministro degli Esteri tedesco, sembra una corsa a voler incontrare Morsi. Non solo, anche le divergenze interne agli Stati Uniti sulla definizione del golpe contribuiscono a indebolire la posizione dell’esercito. In altre parole, mentre Barack Obama chiamava continuamente il leader della giunta militare Hussein Tantawi dopo la deposizione di Mubarak, non ha mai sentito Sisi in seguito al colpo di stato e, come se non bastasse il senatore John McCain, inviato al Cairo, ha messo la mano sul fuoco che al Cairo si sia svolto un golpe. Per questo, il governo egiziano ha inteso rappresentare il pressing diplomatico internazionale come fallimentare.

Fin qui i veri vincitori sembrano allora proprio gli islamisti. Hanno saputo occupare piazze in tutte le città e le province egiziane, organizzare marce verso gli edifici della Sicurezza di Stato, usare la mediazione dei movimenti salafiti, attivare le amicizie internazionali, sminuire le manifestazioni di piazza anti-Morsi. I Fratelli musulmani hanno creato un movimento urbano e rurale che ha coinvolto donne velate, bambini e intere famiglie. Hanno costruito una vera resistenza politica. Questo chiarisce un altro aspetto delle rivolte del 25 gennaio 2011, quando il variegato movimento di piazza è stato monopolizzato dagli islamisti. I Fratelli musulmani confermano di essere i soli in grado di fare e portare a termine una rivoluzione contro l’establishment militare. Rabaa al Adaweya, la piazza vicino alla Moschea del Cairo diventata il quartier generale della protesta islamista, può piacere meno del sogno liberale e socialista di Tahrir ma in realtà è l’unico fronte di resistenza al populismo cavalcato dai militari. È interessante notare che qualche giorno fa, anche gli ultra, nemici giurati dell’esercito, si siano timidamente avvicinati all’assembramento di piazza Nahda dei Fratelli musulmani.