Nessuno ha raccontato l’America come Bruce Springsteen, nelle sue canzoni c’è l’eco della memoria di Chuck Berry, la protesta dei testi di Woody Guthrie, il romanticismo di Roy Orbison. Influenze rielaborate con una sempre presente miscela di speranza e di gioia, con la certezza che i problemi e i disagi più insormontabili alla fine, troveranno soluzione.

Educato a considerare la storia americana dal punto di vista degli oppressi, Bruce riconosce il nesso esistente tra le fatiche e le lotte dei genitori e le dinamiche sociali di un paese incline a dimenticare i suoi cittadini più deboli. Lo ha fatto anche di recente, variando la scaletta del suo show a Broadway, per protestare contro la politica della amministrazione Trump di separare le famiglie alla frontiera con il Messico e chiudere i bambini nelle gabbie. «Per 146 spettacoli, ho suonato praticamente lo stesso set ogni sera. Stasera c’è bisogno di qualcosa di diverso», e ha fatto risuonare le note di The Ghost of Tom Joad, la canzone scritta nel 1995 ispirata a Furore di Steinbeck.

CAMBIAMENTO e progresso sociale ma anche timori su orizzonti foschi pervadono le nuove storie del suo diciannovesimo disco in uscita il 14 giugno Western Stars (Columbia Records/Sony Music) che lo stesso autore definisce: «Un ritorno alle mie registrazioni da solista con le canzoni ispirate a dei personaggi e con arrangiamenti orchestrali cinematici».

Prodotto a quattro mani con Ron Aniello, registrato in buon parte nel suo studio casalingo in New Jersey con alcune parti realizzate in California e a New York, è un album fuori tempo e forse già un classico della sua discografia dove si ritrovano i temi cari a Springsteen: dal sentimento di isolamento e la speranza che non viene mai meno nonostante tutto, le autostrade e gli spazi deserti.

È UN LAVORO dagli umori musicali ispirati al pop californiano del Sud tra la fine dei ’60 e i primi ’70. Una chitarra acustica in evidenza, voce dolente e piena, canta di libertà e amicizia l’autostoppista protagonista dell’introduttiva Hitch Hikin’: «Pollice fuori cercando un passaggio, le mappe non fanno per me amico. Seguo il tempo e il vento».

C’è la voce di Patti Scialfa nei cori lontani di The Wayfarer, in un disco ricco di soluzioni orchestrali, fiati, pedal steel a cui hanno contribuito oltre una ventina di musicisti tra i quali Jon Brion e ospiti di lusso come David Sancious, Charlie Giordano e Soozie Tyrell.

VITE AI MARGINI e cuori solitari, come il viandante di The Wayfarer, che si sposta di città in città alla ricerca di «quiete e bellezza»: «Sono un viandante, baby. La stessa triste storia, l’amore e la gloria vanno e gli fanno strada, scivolano da una città all’altra per trovare pace».

Suoni lucidi, atmosfere cinematiche, ma con brani evocativi pronti per la gioia dei fan, come Sundown dalla melodia irresistibile e la conclusiva Moonlight Motel, dove approda l’amante abbandonato, una delle anime belle e perdute raccontate da Bruce in questo grande disco: «Ho tolto una bottiglia di whisky da un sacchetto di carta, un sorso per me e un altro pensando a te. E ancora un altro, giù al parcheggio del Moonlight Motel».