Drammatizzare la crisi dell’Unione europea non è certo sconsiderato. La materia non manca tra est e ovest, tra nord e sud.

E nemmeno incombono scadenze elettorali tali da suggerire attendismi e prudenze.

Certo, evocare la minaccia di una «guerra civile europea», come ha fatto il presidente francese Macron nel discorso di Strasburgo, non è molto pertinente non essendo l’Unione quello spazio politico unitario e formato che fa da teatro a ogni conflitto intestino. Semmai è la guerra tra nazioni, nelle diverse forme in cui può darsi, la più fosca delle prospettive che si stagliano all’orizzonte. Che le pulsioni nazionaliste siano tornate a circolare prepotentemente nel Vecchio continente è un fatto acclarato. Ma quale è il carburante che alimenta questo ritorno? È semplicemente il fatto che le sovranità nazionali riescono agevolmente a spacciarsi come più “sociali” e protettive delle istituzioni e delle politiche comunitarie. Sul breve periodo e in ambiti specifici questa pretesa può anche risultare plausibile, ma in prospettiva è destinata a rivelarsi vana, a indebolire i fattori di sviluppo e a ridurre drasticamente l’idea e la pratica della democrazia. Nei paesi dell’Europa orientale, del resto, è già pronta per l’uso quella definizione di “democrazia illiberale” che accompagna l’autoritarismo identitario proprio del nazionalismo contemporaneo. Su quel fronte una guerra culturale è ormai pienamente in atto.

Quale dovrebbe essere allora la risposta dell’Unione all’espansione di questo fenomeno? Mostrarsi come una “sovranità” più “sociale” e protettiva delle classi dirigenti nazionali che mascherano dietro immaginarie congiure cosmopolite la propria rapacità e il proprio comando sulla forza lavoro e su tutte le risorse di cui dispongono i rispettivi paesi. E nei confronti delle quali l’Europa che conosciamo è prudente fino all’accondiscendenza, quando non ne è semplicemente ostaggio.

Le proposte del presidente francese, l’unione bancaria, la riforma dell’eurozona e l’istituzione di un suo unico ministero finanziario, il fondo per investimenti comuni, possono effettivamente favorire una correzione degli squilibri tra le economie del continente, (Berlino permettendo) ma della loro efficacia nel contrastare disagi e paure dei cittadini europei converrà dubitare.

Tanto più che in patria Macron è impegnato nell’adeguare sempre più drasticamente il “sistema-paese” all’ortodossia neoliberista, incontrando forti resistenze. Cosicché questo adeguamento e i suoi costi sociali resterebbero la precondizione per qualunque rafforzamento dell’Unione. Nonostante questo i paesi nordici guardano con diffidenza al protagonismo della Francia, paese considerato non indenne da vizi troppo mediterranei. A Berlino, insieme a Martin Schulz, sembra essersi eclissato ogni slancio europeista, rivelando come la “priorità nazionale”non fosse affatto una bandiera issata per il solo timore dei successi della destra xenofoba e nazionalista.

Eppure, con tutte le sue contraddizioni e il convinto ossequio al dominio indiscusso del mercato, la visione del presidente francese ha il merito di riaffermare come imprescindibile la dimensione europea nel fronteggiare i grandi processi di trasformazione in atto a livello globale e di mettere in guardia una volta di più dalle potenzialità distruttive e oppressive dei nazionalismi di ritorno. La «sovranità europea», che Macron ha evocato, rischia di manifestarsi in una statualità sovranazionale che riproduce su larga scala i caratteri oligarchici e postdemocratici degli stati nazionali. Rovesciarla in un potere democratico sarebbe il compito di un’azione politica europea che è però ancora lontana dall’aver raccolto le forze necessarie a farlo.