Chi possiede la verità? Ce lo chiediamo sempre più nella nostra epoca di riproduzione di notizie false, manipolazione di dati pubblici e diffusione di quelli segreti, di costruzione, ritocco e sofisticazione di immagini apparentemente oggettive. A differenza del paradosso raccontato da Rodari in Gelsomino nel paese dei bugiardi (Editori Riuniti, 1959), non basta più alzare la voce per contrastare la falsità imperante. L’idea di riproduzione della realtà si è complicata con le tecnologie digitali che, ricreando immagini iperrealistiche ferme e in movimento, hanno minato il mito apparentemente inattaccabile dell’oggettività dell’immagine analogica. Anche il controllo in poche mani imprenditoriali e/o politiche delle informazioni, dei media potenti, della diffusione delle notizie e delle narrazioni mettono fortemente in discussione la stessa solidità del concetto di verità. Mai unica nemmeno nelle situazioni più sincere, in quanto essa dipende dai punti di vista, dalle percezioni, dalle diverse ricostruzioni, dalle interpretazioni soggettive. Reportage e documentari sono insidiati alle fondamenta, ma anche ricercati e richiesti. Pluralismo e attendibilità sono fra gli anticorpi, nel giornalismo come nel documentarismo.

Who owns the truth? è la domanda tormentone che aleggia sulla 62° edizione di Dok Leipzig, il festival internazionale del film documentario e d’animazione (da lunedì 28 a domenica 3). È l’ultima diretta da Leena Pasanen che dal prossimo anno avrà le redini artistiche del Biografilm festival di Bologna. All’interrogativo è dedicato un simposio di due giorni in cui verranno indagate e discusse le diverse strategie estetiche e politiche con cui i cineasti si rapportano a chi ha visioni opposte alle proprie. Il documentarista è tenuto a mostrare (e mostrarsi) nel modo più obiettivo possibile o invece può, forse deve, assumere una posizione, magari manifestandola espicitamente come atto di onestà e trasparenza? Fra i registi chiamati al confronto c’è anche Thomas Heise con il suo controverso film Jammed-Let’s get moving (1992) su un gruppo di giovani neo-nazisti di Halle an der Saale. Gli antifascisti berlinesi lanciarono il boicottaggio della sua prima mondiale. «DOK Leipzig ha proiettato film politicamente divisivi da quando esiste il festival» rivendica il programmatore Ralph Eue. Sono infatti soprattutto le numerose proiezioni ad alimentare la riflessione e non solo nei programmi speciali collegati al simposio. In tutto sono 310 le opere in programma (da una selezione di 3mila considerati) provenienti da 63 paesi, fra cui la Croazia oggetto quest’anno di uno sguardo approfondito.

Curiosamente non c’è la presenza turca e, più comprensibilmente, nemmeno una curda. Nel panorama internazionale c’è invece la Siria, in coproduzione con Egitto e Libano, grazie al documentario in arabo di un’ora Sugar Cage (Qafas al sukkar) di Zeinah AlQahwaji. La regista nel suo primo lungometraggio centra l’obiettivo sui propri genitori anziani bloccati nel loro appartamento vicino a Damasco, ogni giorno alle prese con la paura dei bombardamenti e l’isolamento. Nell’arco di più visite da quando è iniziata la guerra in Siria, Zeinah li ha ripresi interrogandosi sul significato di «casa» in tali condizioni di ingabbiamento, dove il tempo è scandito fuori dalla finestra con il cambio delle stagioni e nell’abitazione dalle periodiche sospensioni di elettricità e acqua. Della competizione internazionale e in prima mondiale un altro ritratto di famiglia arriva dall’Iran. Family relations (Ravabete khanevadeji) in lingua farsi di Nasser Zamiri presenta in chiave tragicomica la narrazione della saga familiare da parte degli stessi protagonisti, a partire dal patriarca Haji Baba. Di una cinquantina di parenti riuniti sul terrazzo per una foto di gruppo, circa la metà si presta a farsi riprendere dal filmaker persiano nel corso di ricostruzioni corali anche contrastanti fra beghe per questioni ereditarie, accuse e dinieghi, con punte istrioniche del capofamiglia quando recita poesie o canta un motivo romantico. Nella babele di rimproveri e smentite, dove sta la verità?

Tratto distintivo del festival più importante e longevo dell’Europa orientale è la combinazione del documentario con il film d’animazione. Il cinema manipolato è disseminato nelle varie categorie insieme a quello dal vero, oltre ad avere programmi specifici fra cui quest’anno gli omaggi e spazi dedicati ai Brothers Quay. I gemelli Stephen e Timothy Quay, ospiti di Dok Leipzig che terranno anche una masterclass, presentano la loro variegata produzione di cinema stop-motion sperimentale in forma di spot, video musicali, pubblicità, cortometraggi, lungometraggi, avanguardia surrealista estrema, in continua ricerca. Americani stabilitisi in Inghilterra, i Quay ispirandosi alle arti dell’est europeo -in particolare il ceco Svankmajer- mettono in scena strani pupazzi e oggetti meccanici su partiture sinfoniche spiazzanti.

Nella Brothers Quay Night*footnotes commentano di persona i propri processi creativi introducendo il cortissimo Wonderwood for Comme de garçons (2010), pubblicità sensuale per un profumo impregnato di scene naturalistiche intense e in dettaglio confinanti con l’olfatto, e il loro primo lungometraggio Institute Benjamenta or This Dream People Call Human Life (1995), ispirato al romanzo di Robert Walser Jakob von Gunten (1909). Nel programma speciale Potentiae Materialis: Homage Brothers Quay, viene presentata una significativa selezione delle opere ora sconcertanti, ora oniriche del duo artistico che però stranamente non include la più rinomata Street of Crocodiles (1985). Parte del programma è frutto di una carta bianca data ai fratelli, inoltre i Quay hanno realizzato il trailer del festival di quest’anno.
Peculiarmente affascinanti e disturbanti ad un tempo, i loro film varcano i confini fra universo reale e quello dei sogni. È il caso di In Absentia (2000), selezionato anche al festival di Cannes, che prende spunto da due pagine manoscritte contenenti parole imploranti ripetute di una donna degli inizi del secolo scorso in trattamento psichiatrico. Visivamente si traduce in dettagli di movimenti convulsi di scrittura e della grafite di matita e in forme animate di luce sincronizzate sui suoni della musica contemporanea di Karlheinz Stockhausen. Il rapporto dei Quay con la musica si esplica anche in diversi video per artisti quali Sparklehorse, 16 Horsepower e Peter Gabriel (Sledgehammer, 1986). Nel 2015 Christopher Nolan ha realizzato il corto Quay su di loro.