«Per chi ho votato? Per il presidente nostro. È una persona molto seria, bravissimo…. che ti posso dì? Ha fatto tante fabbriche nuove, sistemato tante cose. E adesso l’Egitto è più tranquillo. Prima, per colpa del casino, non potevo neanche uscire con mia madre e mia sorella». Ali parla lentamente, si preoccupa di sfoggiare un buon italiano: non si aspettava di essere intervistato nel negozio di frutta del suo connazionale Walid, a Roma.

IL CASINO DI CUI PARLA questo signore egiziano sulla sessantina, che gestisce una pizzeria poco lontano, è quello iniziato con la rivoluzione del 2011 che rovesciò il regime di Hosni Mubarak, quando a un periodo di instabilità politica seguì il fallimentare governo dei Fratelli musulmani.

La fine del casino risale, secondo lui, a luglio 2013 con il colpo di stato dell’ex generale al Sisi, che con ogni probabilità sarà riconfermato da una maggioranza schiacciante alle elezioni.

Ali e gli altri egiziani residenti all’estero hanno già votato per le presidenziali dal 16 al 18 marzo. Chiedo a Walid, il fruttivendolo, di dirmi quante persone ci fossero a votare: «Tantissime», dice raccontando di esserci andato con tutti i suoi amici. «Hanno fatto i pullman dalla moschea di Magliana per portare la gente all’ambasciata», aggiunge Ali.

Provo a verificarlo contattando la moschea di Magliana, ma invano. Cerco qualche indizio sulle pagine Facebook della comunità egiziana in Italia: degli autobus organizzati nessuna traccia. Invece, nei giorni del voto all’estero, diversi account hanno condiviso sulla pagina dell’ambasciata immagini scattate al suo interno o nel cortile, con ragazzotti che sventolano la bandiera egiziana, ragazzine sorridenti circondate da palloncini bianchi, rossi e neri, persone che esibiscono magliette e cappellini con slogan e ritratti del presidente uscente.

Qualcuno ha persino fotografato quella che ha tutta l’aria di essere la sua scheda elettorale, aggiungendo, in arabo, «presidente amore mio, il mio voto per al Sisi».

La scheda elettorale fotografata e pubblicata online
La scheda elettorale fotografata e pubblicata online

 

Non tutti la pensano come Ali e Walid. «Per la gente che non parla contro il regime la vita in Egitto è tranquilla, per gli altri no», è il senso delle parole di Farida, che incontro nella sua casa, in una periferia romana lontana da tutto. Ha lavorato nel campo dei media prima di trasferirsi in Italia con la famiglia. «Non so se questi numeri sono veri, li ha diffusi qualcuno che è contro Sisi», dice Farida, nome di fantasia. Nel dubbio, «non usare il mio vero nome», aggiunge mostrandomi sul cellulare un’immagine che circola sui social.

In alto c’è la faccia di al Sisi, composta da centinaia di fotografie di volti; in basso, dati relativi al numero di uccisioni extragiudiziali, morti in carcere per negligenza dei medici, tortura.

DATI SIMILI A QUELLI che leggo sul telefono di Farida vengono pubblicati periodicamente da ong locali e internazionali. Si parla, come ha riconosciuto recentemente anche il Parlamento europeo, di migliaia di prigionieri politici e di opinione: per il Cairo Institute per la ricerca sui diritti umani (Cihrs), sarebbero circa 60mila. 912 persone, secondo la campagna contro le sparizioni forzate, sarebbero state fatte sparire dall’inizio del regime di al Sisi, luglio 2013, a fine 2016.

A questi si aggiungerebbero altri 378 desaparecidos nei 12 mesi precedenti al primo settembre del 2017. «Quali sono i tuoi problemi a Roma in quanto egiziana?». Farida ci pensa un po’: «Le buche nelle strade». Ridiamo. «Quando porti il velo sulla metro, sull’autobus, se c’è un’altra sedia vuota, forse gli altri non preferiscono sedersi accanto a te. Lo penso, è quello che ho sentito, ma nessuno me l’ha detto», aggiunge.

Ed ecco come la pensa sul voto del 26 marzo: «Che io sappia questo è un referendum, non sono elezioni». Alla chiamata alle urne del governo egiziano non ha risposto: «La politica non mi interessa più molto».

IL GIORNALISTA Maaty El-Sandoubi è seduto su una panchina nei giardini di Piazza Vittorio, mentre alle nostre spalle un gruppo di ragazzi suona musica folk. «Come si fa a dire che sono elezioni? C’è solo un dittatore che vuole essere eletto per dire al mondo intero che ha la legittimità come presidente della repubblica. E poi, tre giorni! Ma che Paese siamo, la Russia? Vuole più tempo per portare più gente alle urne, ma tutto questo ha un costo enorme, siamo uno Stato povero!». Negli anni ’90, El-Sandoubi ha lavorato a lungo in Italia, come corrispondente per la stampa progressista egiziana.

Grazie alla doppia cittadinanza acquisita in quel periodo, l’anno scorso è potuto tornare a Roma: «Seguivo il caso Regeni, forse ero l’unico egiziano a farlo, e ho iniziato a sentirmi fortemente esposto all’arresto» spiega il cronista che ora promuove una campagna per il boicottaggio delle elezioni, oltre a continuare dall’Italia la sua battaglia contro le sparizioni forzate.

La campagna «Muqati’un’» (disertori, boicottatori), che chiama a disertare i seggi è stata appoggiata da diversi esponenti dell’opposizione, tra cui Abdel Moneim Abol Foutoh, islamista che nelle elezioni presidenziali del 2012 ottenne un quinto dei voti al primo turno, l’ex capo dell’autorità anti-corruzione Hesham Genena e Mohamed Anwar Sadat, nipote dell’ex presidente omonimo, che ha ritirato la sua candidatura adducendo la scelta a preoccupazioni per la sicurezza dei suoi sostenitori.

«IL SENTIMENTO DIFFUSO è che queste non sono elezioni. Ma noi vogliamo dare a questo sentimento una spinta politica, più articolata», spiega El-Sandoubi. La sua campagna raccoglie qualche migliaio di sostenitori su Facebook, anche se non tutti egiziani.

«Non andiamo perché siamo convinti che questo sia anche uno strumento contro di lui: vogliamo trasformare questo malcontento generalizzato in un atto politico. La battaglia contro al Sisi sarà una battaglia pacifica, vogliamo fare il boicottaggio come primo passo per poi bloccare il Paese e poi dire: vai via».

Karim ha un bell’accento romano, tradito solo dalla tendenza, tipicamente araba, a invertire ‘p’ e ‘b’. «Quando ho fatto la rivoluzione avevo 17 anni, ero un bischelletto» dice. I suoi grandi occhi scuri brillano mentre ricorda i giorni della rivoluzione a Piazza Tahrir nel 2011. Incontro il giovane mediatore culturale in un bar al Pigneto, uno dei tanti ritrovi della sinistra alternativa sparpagliati nel quartiere.

«Il 28 gennaio 2011 ero al Cairo per motivi che non c’entravano nulla con la politica. Mi sono trovato nel cuore degli scontri tra manifestanti e polizia, alla stazione della metropolitana di Ramsis, e ho visto tutta questa gente, come un pezzo unico, che chiedeva la stessa cosa: pane, libertà e giustizia sociale», ricorda citando in arabo lo slogan famoso durante la primavera che rovesciò il regime di Mubarak.

«In teoria dovevo andare nella capitale per altre cose, ma sono rimasto in piazza per giorni. Dovevo combattere per difendere la piazza, per difendere un sogno, una speranza in un futuro migliore». Ma quei giorni sembrano lontani e, secondo Karim, quei ragazzi «che non avevano nulla a che vedere con i partiti, volevano solo libertà» ora sono tutti in carcere, o sono cambiati, rassegnati.

«Quando sono partito, gli amici mi chiedevano: ‘perché vai via? Ora il Paese è nostro! Avremo un futuro, potremo fare tutto’. Adesso mi chiedono come fare per partire, non vogliono più starci, non ce la fanno. Ci siamo fatti fregare di brutto perché non conoscevamo le regole del gioco, la politica non la sapevamo fare».

KARIM NON HA VOTATO: «Da quando c’è al Sisi aho lasciato perdere la politica egiziana e per questo litigo sempre con mio padre. Lui lo sostiene, io sono contro», dice in un sorriso, poi esprime una visione di sconsolante amarezza: «Chi era un bambino nel 2011 non sa niente dei fatti di Tahrir, della rivoluzione. Hanno cancellato tutto. Morirò con questo mito di rivoluzione che vive in me e poi amen». Mentre parla noto il braccialetto che ha al polso. È giallo, c’è scritto «Verità per Giulio Regeni».