Interregno. È la prima parola che mi viene incontro mentre mi accingo a queste rapide osservazioni sui temi sollevati dall’articolo di Pier Giorgio Ardeni e Stefano Bonaga sull’impotenza della politica. Sirena d’allarme che acquista un suono ancora più stridulo e incalzante nella nuova congiuntura determinata da due eventi recenti: la scampata crisi di governo in Italia e il Capitol Hill attack. A dispetto della loro diversa natura e scala di rilevanza, questi eventi squadernano davanti ai nostri occhi il doppio versante del guado in cui oggi si trova la politica democratica: da un lato lo stallo delle istituzioni (governo e parlamento), dall’altro la faglia tellurica dei movimenti populisti di protesta.

Interregno, dicevo: termine di ascendenza gramsciana ripreso da Zygmunt Bauman ma ancora da comprendere e ridefinire, in una direzione che avevo già avviato da un ventennio nei miei lavori sulla globalizzazione e che proverò a sintetizzare alla fine. Sui primi effetti dell’esitare a metà del guado Ardeni e Bonaga hanno ragioni da vendere: le fasi di interregno sono quelle più traumatiche per i partiti (o movimenti) politici. E non si tratta di una semplice crisi di rappresentanza, ma di una crisi della forma democratica ereditata da due secoli di storia della modernità. Una crisi strutturale aggravata a dismisura da una pandemia che ha le sue radici nella violenza “estrattiva” esercitata dall’Antropocene sulle materie prime e le forme di vita animali e vegetali del pianeta e che ha determinato una crescita esponenziale delle diseguaglianze.

È da questa crisi di forma che si generano i movimenti populisti: movimenti bidirezionali che contestano le istituzioni democratiche assumendo talvolta i tratti di un vero e proprio insurrezionalismo reazionario (come si è visto nell’attacco a Capitol Hill). Pura illusione, finché non si verrà a capo di questa strozzatura, pensare di risolvere la crisi con il ritorno alla normalità liberaldemocratica di Biden. Dopo Trump, spunteranno allora sulla scena nuovi leader populisti videocratici e digitali pronti – in forme talora comiche, talora spettrali e funeste – a presentarci la sventura sotto le sembianze della salvezza. Come tentare allora una via d’uscita? Vi è un solo modo, a mio avviso. Operare un potenziamento della politica su entrambi i versanti dello stallo in cui ci troviamo: le strutture e i soggetti.

Si tratta, per un verso, di rompere la sindrome spettatoriale delle attuali policrazie istituzionalizzate: cittadelle democratiche popolate (notava già Weber più di un secolo fa) di individui che vivono “di” politica anziché “per” la politica. Ridare ai soggetti quell’eguale potenza di agire politicamente che Ardeni e Bonaga compendiano nel termine “isocrazia”: intendendo in sostanza una dynamis piuttosto che un kratos (termine – Luciano Canfora docet – insidiosamente prossimo al potere come dominio o violenza).

Per altro verso, occorre ridefinire l’interregno non fermandosi alla fenomenologia del celebre passo dei Quaderni del carcere in cui si parla dei “fenomeni morbosi” che si verificano quando il vecchio è ormai morto e il nuovo stenta a nascere, ma andando invece all’aspetto strutturale e, per così dire, patogenetico della diagnosi: la “crisi di autorità” di una élite che, incapace di essere “dirigente”, si è ormai ridotta a pura dominatrice e detentrice della “forza coercitiva”.

Proviamo allora a ripensare alla potenza non come forza ma come auctoritas, come un augere, un augmentum simbolico non verticale, ma orizzontale, una donazione di senso in grado di accrescere le capacità di azione politica dal basso: come è accaduto a tutti i movimenti generativi della storia, a partire dal movimento consiliare (e, ai giorni nostri, alle stesse Sardine). Solo così saremo in grado di tenere insieme le due dimensioni della politica-processo, della costruzione e della pratica quotidiana, e della politica-evento, della capacità di cogliere il kairós, i segni dei tempi, per intervenire tempestivamente nella congiuntura.

La vera tragedia non sta nella presunta onnipotenza, ma nell’impotenza del potere: di un potere privo di autorità.
È degli effetti violenti di questa impotenza che dobbiamo temere. Non della nostra potenza di restituire alla politica l’autorità perduta.