La crisi non c’è, almeno per ora, ma la ripartenza modesta di questi anni riceve un duro colpo alla schiena, cioè nell’economia reale e in particolare nel settore manifatturiero. I dati sono evidenti proprio nel cuore produttivo dell’Europa. L’industria tedesca a giugno crolla a -1,5% sul mese precedente e nel confronto anno su anno è già a -5,2%. Si teme un dato negativo per il Pil nel secondo e, persino, nel terzo trimestre del 2019. Sarebbe una recessione tecnica. Chi paga il prezzo maggiore è il manifatturiero, mentre tengono i servizi grazie alla domanda interna.
Per un campione delle esportazioni come la Germania gli affanni dell’economia globale pesano eccome. E hanno immediate ricadute sui principali partner produttivi, come l’Italia. Non è un caso, al di là delle croniche strozzature del sistema paese e dei dati stagnanti che oramai sono registrati da tempo, che per la prima volta dal 2013 persino la Lombardia, la regione più integrata con l’economia internazionale, subisce un calo produttivo che Unioncamere stima pari a -0,9% per il secondo trimestre. Anche in questo caso il calo è concentrato nel manifatturiero, nonostante una ripresa degli ordini a luglio. Si contrae la domanda estera e rallenta quella interna. Calano le vendite di automobili in Germania e ne risente immediatamente il settore della componentistica in Italia, il centro industriale europeo va in crisi e la filiera negli altri paesi finisce in apnea.

Questi, schematicamente, sono gli effetti delle guerre commerciali in corso su scala planetaria. La vecchia globalizzazione si è diffusa talmente che ne resta l’impalcatura su cui si appoggia l’economia globale, ma come un’architettura in via di smantellamento e con effetti deprimenti su scala internazionale. Le guerre commerciali, e ora anche valutarie, conducono a una parziale rinazionalizzazione dell’economia.

I dazi di Trump sui prodotti cinesi hanno come effetto una fuga e un disinvestimento delle multinazionali occidentali nell’Impero Celeste, il Giappone toglie lo status di partner commerciale preferenziale alla Corea del Sud, provocando prevedibilmente una reazione di chiusura di quest’ultima. Le tensioni commerciali tra Europa e Usa non sono derubricate, permangono all’insegna di una competizione strisciante, anche sul piano monetario. La Cina prosegue nella costruzione di un proprio mercato interno con le «sue» multinazionali che ambiscono sempre più a contendere all’Occidente il primato nei commerci su scala continentale, dall’Asia all’Africa. Paesi non del tutto allineati agli interessi cinesi, come Vietnam e India, offrono però nuovi spazi per delocalizzare alle imprese occidentali, proponendosi come nuove piattaforme in grado di sottrarsi alle logiche della guerra commerciale contro la Cina. È per tali movimenti che il cosiddetto reshoring (il ritorno a casa delle produzioni) non sta diventando un fenomeno particolarmente significativo. In tempi di protezionismo crescente, dunque, si va affermando una tendenza verso la deglobalizzazione coniugata con nuove forme di globalizzazione a geometria variabile. Di certo non si torna semplicemente alla fase ante-globalizzazione degli anni Cinquanta. La delocalizzazione produttiva, ricercata per mantenere il più bassi possibile i costi, e la finanziarizzazione dell’economia, favorita dalle interventismo monetario, sono due dati che resteranno protagonisti del nostro futuro.

Le economie, dunque, si stanno nuovamente separando all’insegna di nuove fratture e alleanze. Le nazioni giocano una nuova partita, la politica torna protagonista, mentre l’economia resta fondata su principi iper-competitivi. È notizia di questi giorni che il nuovo premier britannico intende azzerare le tasse nei porti per contendere i traffici agli scali continentali. Le squadre cambiano gli atleti, ma le regole del gioco restano immutate.