Roma si ricandida a ospitare le Olimpiadi. Aridangarompacoiomba, verrebbe da osservare, citando un vecchio film di Ettore Scola. Ci aveva già provato il sindaco precedente, ma senza fortuna: l’allora presidente Monti ne decretò l’inopportunità. Al di là del fatto che l’incedere della realtà possa perfino far rimpiangere il cupo contabile varesino, resta l’inquietante sensazione di trovarci nuovamente al punto di partenza. Con alcune differenze, tuttavia.
Innanzitutto, lo stucchevole sorriso di Marino invece dei sibili nasali di Alemanno. E poi le imbarazzanti acrobazie degli oppositori di ieri, concordi, anzi entusiasti oggi; e i sostenitori del passato, ora schierati inspiegabilmente contro. E’ solo manfrina, basso tatticismo. Quel che conta è assicurarsi finanziamenti e ritagliarsi poteri, grazie ai quali poter affermare che gli investimenti per la grande manifestazione aiuteranno la città, la renderanno più bella e la proietteranno sul firmamento internazionale. Ovviamente, senza il minimo accenno al fondato pericolo di spremerla e maltrattarla, oltreché risvegliare gli istinti politici più bassi, se non propriamente criminali: che nella capitale sappiamo piuttosto diffusi e sperimentati. Il tutto, corredato dalla consueta, insopportabile retorica dell’orgoglio nazionale.
Se il rischio è passare per antipatriottici, pazienza, lo correremo. Anche se, al contrario, noi pensiamo che siano tali i sostenitori dei grandi eventi, delle grandi opere, dei grandi saccheggi. Esattamente chi, in nome della fierezza italica, strombazzando l’inno di Mameli, si sbatte e si batte per realizzare quelle che chiama grandi sfide, grandi imprese, grandi avventure, tutte grandi, tutte rovinose. Semmai, sono quelli come noi i patrioti veri, quelli che lottano per difendere città e territori, per preservare patrimoni e paesaggi, per impedire devastazioni ambientali e speculazioni urbanistiche.

Dopo l’Expo di Milano, arrivano le Olimpiadi a Roma. Passando per il Tav, il Mose, il Muos, l’oleodotto transadriatico, le trivellazioni, le nuove autostrade, ecc. Diverse le prime due dalle altre, ma tutte riconducibili alla stessa logica scellerata, allo stesso ingannevole modello. Far passare come vantaggio pubblico, ciò che all’opposto è utilità privata. Stressare tessuti urbani e morfologie naturali per ricavarne profitti. E se poi, qua e là, se ne ricavino benefici sociali o piacevoli intrattenimenti, la sproporzione tra questi e gli altrui accaparramenti lascia senza fiato, è roba che grida vendetta.

Anche qui, in questa ritmica distruttiva, in questa ingordigia senza freni, si misura il totale asservimento della politica al dogma dell’accumulazione, la totale subalternità della funzione pubblica all’interesse privato. Riservandosi di svolgere l’unica, modestissima prerogativa istituzionale che ancora permane, quella compensativa, cioè parassitaria: concedere, autorizzare in cambio di quelle opere che dovrebbero essere assicurate ma che le amministrazioni non sono più in grado di realizzare. Tre chilometri di metropolitana per uno stadio, un viadotto per cinque pozzi petroliferi, un acquedotto per un impianto militare, un museo per un centro commerciale, un asilo nido per una palazzina, un giardinetto per una variante urbanistica.

Per allestire le (eventuali) Olimpiadi romane il meccanismo che s’intende attuare è il medesimo collaudato con l’Esposizione universale. Si offre il valore d’uso della città per ottenere il valore di scambio rappresentato dal finanziamento privato. E così, in aggiunta all’investimento pubblico, che sarà di certo limitato, la gran parte delle necessità sarà assicurata da risorse private, che poi rientreranno da dove sono venute, portandosi dietro ampi margini di profitto. Profitti di vario genere: monetari naturalmente, ma anche pubblicitari, promozionali, d’immagine, che a loro volta, trattandosi di un evento planetario, si moltiplicheranno in volume e in ampiezza.
Che poi l’intervento privato sia ad alto impatto urbanistico, sovraccarichi ulteriormente il tessuto urbano, è aspetto trascurabile, anzi irrilevante. E’ un inevitabile effetto collaterale.