L’anno celebrativo shakespeariano si è compiuto fruttuosamente. Molto s’è detto di Shakespeare in quattrocento anni, ma molto ancora – così appare – ci è stato dato da sapere. Le novità più entusiasmanti non sono consistite tuttavia di nuove ‘interpretazioni’ dell’opera, perché, come implicava già T. S. Eliot, la mietitura canonica in quella direzione si è espressa nella prima metà del Novecento; né di analisi mediate dalle prassi strutturaliste e post che hanno trionfato nella seconda metà dello stesso secolo, cui si è aggiunto il Neostoricismo di Stephen Greenblatt, ancora detentore di un primato fertile.

Le novità italiane che allestiscono il banchetto shakespeariano provengono da vari percorsi: anzitutto, da aggiornate risultanze filologiche lungo le proposte della monumentale edizione Oxford delle opere (con nuove scoperte co-autoriali e molto di più), curata da Stanley Wells e Gary Taylor (1986, 2005, 2016), in corso di pubblicazione con traduzione a più mani e più volumi presso Bompiani (sono già uscite: le Tragedie, 2014, e le Commedie, 2016), sotto la direzione esperta di Franco Marenco; la lettura dottamente simbiotica delle «passioni» inoculate da Shakespeare nei suoi personaggi, depurati da un ‘iconismo’ ormai esausto, in Di vita si muore (Mondadori, 2010) e Vivere nella tempesta (Einaudi, 2016) di Nadia Fusinni; il seducente doppio ritratto Henry James e Shakespeare di Sergio Perosa (Bulzoni, 2010); l’agone tra corpo e indumento, esteriorità e interiorità, scandagliato da Paola Colaiacomo in Le cuciture dell’acqua. Shakespeare alle origini del corpo moderno (Bulzoni, 2012); l’indagine sull’ermeticamente giocoso Pene d’amor perdute condotta da Gilberto Sacerdoti in Sacrificio e sovranità. Teologia e politica nell’Europa di Shakespeare e Bruno (Quodlibet, 2016); le interroganti ‘quadrature’ ebraico-veneziane di Dario Calimani sui pregiudizi relativi al Mercante di Venezia, appena pubblicato da Marsilio, con spinosi riassestamenti ermeneutico-culturali su un testo «in cui ogni significato è sistematicamente contraddetto»; infine, l’ampliamento della scena anfiteatrale di Shakespeare ricostruita, su progetto di Maria Del Sapio, con gli apporti pervenuti dalle indagini sui nuovi «saperi», che l’episteme contorta e ripiegata dell’inizio dell’età barocca interrogava ormai semi-ufficialmente.

Quindi, nello specchio di Shakespeare avanzano i nomi di Copernico, Keplero, Galileo sulla scopia, e di Andrea Vesalio sull’anatomia del corpo umano, con nell’ombra i più noti influssi di Montaigne, Erasmo, Machiavelli, Bruno su un’altra, ma imparentata, sostanza. Insomma – com’era suo dovere – il nuovo secolo contribuisce al convito italiano anche con l’annessione alla fucina elisabettiana dei titolari della «nuova scienza» dei quali Shakespeare, mente riflessiva e riflettente, era contemporaneo.

Un sapere, quest’ultimo, che si direbbe, più eretico, inquisibile, e insieme empirico e proto-tecnologico, meno magico di quello di John Dee, studiato da Frances Yates. Una disciplina capace di incrinare in modo forte il dubbio sulla sino ad allora più o meno condivisa natura dell’universo (il riverberante time is out of joint di Amleto), e destinata a superare le conquiste classicistiche ottenute, grazie al recupero degli incunaboli antichi, dall’Umanesimo che – ripensandoci – con l’eccezione di Leonardo e di Pico, oggi ci sembra che guardasse più volentieri indietro, soprattutto al mito e al «concetto» iconologico, piuttosto che a quanto si andava incubando sull’altro versante del pensiero: il versante neo-umanistico pronto a rompere, veneficamente, nei confronti del Verbo, il ‘guscio’ dell’universo, con strappo lacerante. E ciò non solo nel porre l’uomo al suo centro ma nell’imporre le laiche invenzioni televisive nello sguardo sul mondo e sul corpo umano.
L’arte post-manieristica ne trarrà stimolo soprattutto presso gli olandesi, con Rembrandt (per l’anatomia) e Vermeer (per la lente grandangolare), come pure con Parmigianino, Caravaggio, Velázquez, Arcimboldo, i Carracci (è la «camera ottica» la nuova boîte à merveilles!), sulla scia indicata da van Eyck nel Ritratto Arnolfini, o dagli Ambasciatori di Holbein che, come si sa, esibisce in avanscoperta una teoria di oggetti visivamente orientanti, assieme alla prospettica e anamorfica figura ovoidale (oculare) ai piedi dei due protagonisti del ritratto, in cui si potrebbero rintracciare se non il teschio di Amleto almeno i tanti rimandi alle illusioni oculari e ottiche dei Sonetti.

Allo scadere dell’anno ‘giubilare’, di tale materia si occupa Shakespeare e la nuova scienza nella cultura Early Modern (a cura di Maria Del Sapio Garbero, Pacini, pp. 384, € 35.00): «early», ovvero di primigenia globalizzazione, se si pensa all’ampio circuito di idee e conoscenze permesso dal libro stampato nelle officine alla Manunzio, dalle incisioni iconografiche e dalle scoperte geografiche. Nell’inseguimento delle complessità talora insondabili del primo grande drammaturgo della modernità, questa collettanea bilingue, è orientata lungo il paradigma visivo tele o micro-scopico e anatomico, concesso dalla sintonizzazione sulle antenne ormai svettanti delle novae scientiae (ottica, anatomia, astronomia, matematica moderna, mappe, atlanti e mappamondi …), che aprono alla riflessione su «quelle cose mai viste dall’occhio, che ci sarà dato di vedere», come si legge – lo ricorda Del Sapio – in una delle epigrafi ai Paralipomena (1604) sull’ottica di Keplero, un aforisma che, paradossalmente, fa pensare al Dante del «Dirò dell’altre cose ch’io v’ho scorte».

Attraverso l’aura delle nuove invenzioni Shakespeare sembra percorrere la sua catabasi (e anabasi) nel mondo delle cose mai viste dall’occhio, ma non negli Inferi o nell’Empireo, bensì in un altro cielo («un nuovo cielo e una nuova terra» in Antonio e Cleopatra) o nelle viscere del corpo umano (l’écorché dello Stupro di Lucrezia), e di questo progetto danno prova nei dettagli gli esperti autori dei saggi qui raccolti. Se il teatro, l’anfiteatro antico, diventa – sul modello del Teatro Anatomico di Padova (1595) – la nuova sala anatomica, neo-ideato spazio dove dissezionare cadaveri, negli ultimi anni del Cinquecento il neo-Globe di Londra prende a sezionare le psicologie e la corporeità umane in rapporto al globo dell’occhio e al globo del mondo. È in questo verbale Vexierbilden l’ultima totalizzante sfida offerta agli amanti di Shakespeare.