Darfur, Centrafrica, Sudan, Sierra Leone, Afghanistan, Iraq: è dal 2004 che la Tam Associati lavora a fianco di Emergency, un incontro naturale per una squadra di architetti che ha scelto di dedicare i propri saperi alle realtà impegnate, dal sociale all’ambiente. Un percorso di intesa non solo professionale ma anche umana di cui l’ospedale in Uganda è solo l’ultima tappa. Raul Pantaleo è uno dei co-fondatori dello studio, il primo a saltare su un aereo quando è iniziata una collaborazione che nel tempo è diventata strutturata e indissolubile.

Il motto di Tam Associati è «Taking care in Architecture» – che significato ha l’«avere cura» in architettura?

Noi abbiamo fatto una scelta molto precisa nel nostro campo, quella di fare un’architettura di servizio, che si prende cura di chi la abita, frequenta e beneficia. Gli edifici che progettiamo devono essere belli perché la bellezza aiuta a stare bene, a guarire, a progettare il futuro: l’architettura diventa uno strumento di cura e la sua bellezza non un fine ma un servizio. Il fine è quello di costruire qualcosa di utile e di efficiente. In questo senso l’esperienza con Emergency è stata un’ esperienza di crescita straordinaria.

Un altro elemento caratterizzante dei vostri progetti è la sostenibilità: in che modo si persegue questo complesso obiettivo?

Ci affidiamo a un grande pragmatismo e c’è da dire che in questo Emergency ci viene incontro essendo un soggetto organizzato estremamente attivo nella fase di implementazione dei progetti; sono vissuti come opere corali, dove l’architetto fa un pezzo assieme a tanti soggetti coinvolti, ed Emergency fa da collante. La sostenibilità è una conseguenza innanzitutto di questa capacità di collaborazione e visione d’insieme: se vogliamo parlare di diritto alla salute non possiamo che parlare anche di diritto all’ambiente. Affiancare alla cura delle persone la volontà di contribuire al futuro del pianeta è una scelta logica, e su questo si lavora mettendo insieme la conoscenza delle tecniche costruttive e del contesto locale, confrontandoci il budget disponibile. Non è una scelta ideologica, questi luoghi sono pensati e costruiti per durare: il Selam Center in Sudan è attivo da 15 anni ed è ancora impeccabile.

Un esempio di valorizzazione delle specificità locali?

Il sistema di trattamento dell’aria che abbiamo applicato in Sudan. Il centro di cardio chirurgia trovandosi una zona desertica oltre a quello delle alte temperature aveva un problema sostanziale: il pulviscolo. Un primo progetto per l’abbattimento degli elementi nell’aria che ci era stato sottoposto aveva un costo troppo elevato, allora con l’ingegnere meccanico che seguiva il cantiere abbiamo cercato delle alternative; mi sono chiesto come funzionavano i filtri dei radiatori delle automobili, le cosiddette sand trap, trappole di polvere che sono sostanzialmente dei labirinti molto semplici; da questo è partito un ragionamento che ha preso in considerazione degli elementi architettonici legati alla tradizione locale: i badgir, le torri del vento, sistemi di raffreddamento passivo presenti nella zona nord sahariana, si vedono ancora in Egitto o in Iran; noi ci siamo inventati un badgir moderno che andava a intercettare l’aria a 8 -10 m di altezza, una aria più fresca che viene portata nel labirinto e poi viene lavata con un getto d’acqua. Questo meccanismo ci ha permesso di pulire perfettamente l’aria e di portarla ai macchinari di raffreddamento con, a seconda delle condizioni esterne, 4, 5, anche 6 gradi di abbattimento della temperatura. Abbiamo portato questa tecnica anche in Darfur, studiandola e implementandola, scoprendo che funziona molto bene, soprattutto in un ospedale piccolo, permette di raffreddarlo per intero con un investimento energetico bassissimo. In questo modo possiamo sfruttare al meglio i pannelli fotovoltaici. E’ un sistema che anche in assenza di elettricità ci permette di ventilare, se c’è vento. Un percorso fra tradizione, innovazione e un po’ di fantasia.

Cosa ha di particolare l’ospedale in Uganda?

Un’opera così raffinata è stato il risultato di un grande lavoro di squadra. Nella discussione sui materiali è emersa l’idea di provare ad utilizzare la terra di scavo, che è una tecnica antichissima, che riguarda il 60% degli edifici costruiti nel mondo. La terra viene compattata all’interno di un cassero (tecnica pisè), ma ovviamente nel nostro caso non tale e quale: in questo è stato straordinaria la macchina di ricerca messa in azione dallo studio Piano; la terra compattata è stata rielaborata con una tecnica scientifica moderna, individuando un mix design che implica il giusto dosaggio delle componenti: terra di scavo, sabbia, ghiaia, e poi l’analisi della terra sul luogo, il quantitativo di acqua, di argilla etc. Le nuove tecnologie inserite hanno fornito durabilità, stabilità e replicabilità al processo; poi oltre a permettere di recuperare i materiali di scavo, questi muri massicci di terra danno vantaggi enormi dal punto di vista della trasmittanza termica, l’effetto all’interno è come quello di entrare in una chiesa, in una grotta, si ha una immediata percezione di frescura, anche in assenza di un sistema di raffreddamento si ha un performance altissima a basso costo energetico, che era proprio quello che il governo ugandese ci chiedeva.