Donald Trump potrebbe diventare il 45° presidente degli Stati Uniti d’America? Per tentare di dare una risposta a questa domanda si deve necessariamente cercare di andare oltre le definizioni del personaggio che sono state proposte da quando si è aggiudicato con un ampio margine di consensi le primarie del Partito repubblicano per la corsa alla Casa Bianca.

Questo perché lo stile, la retorica e le proposte del miliardario newyorkese, che si è arricchito costruendo grattacieli su cui svetta il suo nome a lettere dorate prima di trasformarsi in un popolare personaggio televisivo, rimandano certamente a quegli atteggiamenti razzisti, sessisti, xenofobi e ispirati all’opportunismo e, forse, ad una personalità narcisistica che gli sono stati attribuiti, al pari di una indubbia capacità da imbonitore assortita dall’abilità, per chi detiene uno dei patrimoni più consistenti del paese, di presentarsi come un «americano medio», un uomo dai gusti semplici che, al pari di milioni di suoi concittadini ama il wrestling ed è attratto dalle teorie cospirative più bizzarre.

Ma tutto ciò non basta a spiegare l’entità assunta dal fenomeno di cui è protagonista, il fatto che nello spazio di poco più di un anno sia riuscito a sbaragliare tutti i tenori della destra, compresi quelli di casate a loro modo celebri come i Bush, e a dar vita ad una sfida di proporzioni inaspettate nei confronti di Hillary Clinton.
O meglio, proprio la sua natura di outsider della politica ha consentito a Trump di intercettare quegli umori anti-establishment che hanno caratterizzato dapprima il confronto all’interno di ciascun partito e quindi la campagna per le presidenziali e che saranno ricordati, quale ne sia l’esito finale, come la vera «cifra» di queste elezioni. «Sarò la vostra voce, la voce di chi non ne ha», ha affermato il tycoon nel discorso di accettazione della nomination repubblicana, pronunciato in occasione della kermesse del Grand Old Party di Cleveland.
Più in generale, il miliardario che propone alle inquietudini dei propri concittadini la sua biografia di uomo di successo come una sorta di annuncio di un nuovo possibile «sogno americano», all’insegna del «io ho vinto, potete vincere anche voi», sembra approfittare di una fase della vita politica e sociale statunitense segnata profondamente da alcuni fenomeni che hanno sì investito il paese da lungo tempo, ma che spesso hanno subito di recente una drammatica ed ulteriore accelerazione.

Si tratta da un lato dei drammatici costi sociali delle trasformazioni conosciute dal capitalismo americano negli anni che hanno visto affermarsi la globalizzazione dei mercati e la progressiva finanziarizzazione dell’economia, cui si devono aggiungere gli esiti della crisi del 2008, che hanno contribuito a fare di quella americana una delle società più diseguali del pianeta; temi su cui ha posto l’accento quello che è stato per molti verso l’altro grande protagonista di questa campagna elettorale, il senatore socialista del Vermont, Bernie Sanders.

Di fronte alla perdita dei posti di lavoro e alla concorrenza straniera, Trump ha proposto lo slogan ambiguo dell’«American First», insieme denuncia di accordi e trattati internazionali che hanno sottratto risorse e possibilità al paese, ed evocazione di una pericolosa «preferenza nazionale», interna, foriera di discriminazioni e annuncio di una nuova possibile caccia alle streghe.
Il tycoon ha spiegato Robert Reich, studioso e già segretario al Lavoro durante la presidenza Clinton, si rivolge soprattutto al ceto medio e alla working class, «che si stanno trasformando in una classe ansiosa perché hanno elevatissime probabilità di finire in miseria». In questo senso, per Reich, «le proposte di Trump sono pura demagogia, ma probabilmente se non ci fosse lui ci sarebbe qualche altro imbonitore pronto a sfruttare la paura delle persone». D’altro canto, non si può sottovalutare l’inquietudine che sembra caratterizzare almeno una parte della comunità bianca, con le cui aspettative, speranze e sogni si è di fatto identificata per oltre due secoli e mezzo la storia stessa del paese, sfidata nel suo primato demografico e culturale dalla forte crescita delle minoranze, principalmente dei latinos, e attraversata, durante gli otto anni della prima presidenza di un politico afroamericano, dal riemergere di forti, ed evidentemente mai sopite fino in fondo, tensioni razziali.

Da questo punto di vista, The Donald appare più come il sintomo che non la causa di quel malessere profondo che scuote l’America e che si esprime sempre più spesso attraverso una sorta di stato d’animo rabbioso che rischia di generalizzarsi. Piuttosto, ciò in cui il candidato repubblicano ha dato prova delle sue capacità, è l’aver saputo attizzare costantemente questa rabbia, indicando, spesso in facili capri espiatori, come gli immigrati messicani o i musulmani, e perché no i rifugiati dalla Siria, i responsabili del malessere percepito da molti e alimentando il sospetto, i pregiudizi, l’odio, fino a produrre una ulteriore e pericolosa radicalizzazione del dibattito pubblico. Allo stesso modo, ha parlato all’animo più squisitamente razzista del paese, assicurandosi il seguito degli adepti del «white nationalism», compresi gli eredi del Ku Klux Klan, evocando «invasioni di massa di clandestini» lungo i confini meridionali, ma ricorrendo anche al linguaggio cifrato di «legge e ordine» per stigmatizzare, in maniera meno esplicita, i neri. Inserendosi così, a suo modo, in quel fenomeno che ha fatto da sempre del razzismo, e dell’uso dei temi razziali per regolare conflitti ed equilibri all’interno del paese, una delle caratteristiche della storia americana.

Trump ha inoltre agitato vecchi fantasmi dell’immaginario nativista e wasp e il suo annuncio di «voler rendere di nuovo grande l’America» è suonato a molti osservatori come un messaggio in codice per chi vorrebbe che il paese «tornasse ad essere bianco». Un atteggiamento più che ambiguo, adottato nel pieno di uno dei momenti più difficili vissuti dal paese negli ultimi anni, segnato dalla strage continuata di giovani neri per mano delle forze dell’ordine e dal permanere di discriminazioni meno visibili ma non per questo meno terrificanti, come quanto è emerso di recente a Flint, un città povera e a maggioranza nera del Michigan, dove dal 2014 la locale amministrazione repubblicana ha reso possibile che l’acqua potabile fosse gravemente contaminata dal piombo e provocasse forme di avvelenamento e di disturbi gravi in particolare per migliaia di bambini.
Un contesto nel quale l’intellettuale afroamericano Ta -Nehisi Coates denuncia come molti americani bianchi credano ancora che si possa «correttamente organizzare una società» in base al colore della pelle degli individui e come «l’America bianca è un’associazione schierata a protezione del suo potere esclusivo per il controllo dei nostri corpi».