Molte le scrittrici italiane che hanno dedicato spazio e tempo nelle loro narrazioni al sapore dei cibi nella scansione della vita quotidiana, tra le quali svetta il nome di Grazia Deledda ma altre potrebbero essere chiamate a convivio, da Matilde Serao a Ada Negri, finanche l’austera Ortese insieme a Dolores Prato, le cui descrizioni di cibo povero a lungo vagheggiato sono una delizia dell’animo oltre che del palato mentale. Ma Casalinghitudine di Clara Sereni, pubblicato nel 1987, è stato già dal titolo leit-motiv e bandiera in anni in cui la rappresentazione del lavoro casalingo ancora non faceva intravedere la femminilizzazione del lavoro e il tema della cura, che sarebbero state poi motivo di riflessione e rappresentazione dei cambiamenti sociali avvenuti nel mercato del lavoro di molte donne venute dopo gli anni Settanta-Ottanta del Novecento.

TEMA E TITOLO che più femminile non si può – ancora oggi pure in tempi di gender variamente declinato difficile che un uomo avochi a sé la casa se non per necessità o per vezzo – e che racconta con sfacciata allegria e baldanza la povertà scelta e vissuta dopo essere andate via dalle case paterne all’insegna della difficile arte di «cucinare angoli di tavolino», ovvero come cucinare avanzi che non sono poi avanzi quando di denaro ve n’è poco o nulla. Quasi una lezione di economia domestica, che ricorda a volte il meraviglioso Talismano della felicità di Ada Boni, la prima, dopo tanto scrivere di uomini di galateo e quindi anche di cibo e dei suoi rituali, a rimettere appropriatamente nelle mani delle donne nel 1925 l’arte della cucina come arte del buon governo, e consegnato sovente il Talismano nella tradizione di famiglia dalle mani delle nonne a quelle delle figlie e poi alle nipoti e bisnipoti.
Le ricette di Clara Sereni, scomparsa per propria scelta a Zurigo il 26 luglio 2018 ed è bello che il suo nome risuoni sulle pagine del manifesto al quale collaborò, raccontano però qualcosa di diverso dall’arte del buon vivere: divise come da manuale tra quelle per un bambino, gli stuzzichini, i primi e i secondi piatti, le uova, verdure, dolcezze e conservare (titoli ognuno di capitoli del libro), la loro scansione è volta per volta motivo e occasione di narrazione di storie antiche e recenti, e anche di fratture avvenute e mai ricomposte. Quelle antiche provenienti dalla famiglia ebraica, la nonna in Israele, allora ancora Palestina, le zie bellissime e severe, la madre che è poi Xenia Silberberg più nota come Marina Sereni, fondatrice insieme a Teresa Noce di Noi donne a Parigi nel 1937, il padre Emilio, dirigente del Pci.

UNA FAMIGLIA importante: «secondo una tradizione consolidata e suffragata mia madre era una santa, un’eroina, una martire. Figlia apolide di un socialista rivoluzionario morto in Russia durante la rivoluzione del 1905, nonché di una turco-greca che aveva anche lei portato le sue brave bombe nella borsa della spesa», il padre sempre affaticato, occupato, altrove.
A loro e alla ampia e complicata famiglia Clara Sereni dedicherà nel 1993 un bellissimo romanzo, Il gioco dei regni, mentre in Casalinghitudine è motivo anche di presa di distanza con ricette proprie e diverse da quelle della fame del dopoguerra: come nel caso della ricetta dei crostini saporiti, inizialmente fatti con pane fresco invece che con quello raffermo usato dalla nonna, perché «bisogna pur sprecare qualcosa, per recidere un cordone ombelicale». La ricetta della stracciatella: «Quando il brodo bolle verso a pioggia il semolino. Dieci minuti dopo aggiungo l’uovo sbattuto insieme al parmigiano, mescolo bene per un minuto o due, metto in tavola caldissimo», semplicissima, è difficilissima da trovare sul treno che riporta padre e figlia dall’inverno russo dove sono stati insieme alla madre, che morirà di lì a poco, di cancro.
La figlia sta male, ha la febbre alta, il padre adopera tutto il potere che ha tra le due cortine per ottenere un brodo caldo con la stracciatella e il parmigiano e la figlia finalmente si addormenta, la febbre cala, scendono dal treno insieme e soli. La ricetta degli involtini di cavolo («Sbollento le foglie di verza in modo che diventino flessibili ma non troppo morbide. Impasto la carne, l’uovo, il pangrattato, il prezzemolo, il sale e il pepe») è ricordo vivo della madre, da cui le piace pensare che le arrivi.

COSÌ COME QUELLA del polpettone al forno, nella forma arrotolata, inusuale e molto simile alla famosa galantina di famiglia, è segno e simbolo dei sogni di gloria e rivincita nei confronti del padre, l’uomo del «però manca qualcosa…», in questo caso niente, anzi «proprio buono»: «piansi tutte le mie lacrime».
Scritte in prima persona, con una scelta di stile orgogliosamente soggettiva e insieme autorevole per l’esperienza sottesa, le ricette di Casalinghitudine introducono poi al sapore del cibo preparato per il gruppo politico e amicale degli anni Settanta a metà della notte, quando una fame repentina e allegra «ci prendeva a notte fonda, nel mezzo di un’arroventata discussione politica», ed è un’arte propria, fatta di avanzi e di molta cura. Che questa sia cosa condivisa – l’arte della cura – è altro discorso, come le donne e Clara Sereni si sono accorte in fretta, pure se pensavano di essere emancipate e nuove. Nel ’75 sono ancora loro, le donne del gruppo, a preparare le parmigiane di melanzane per tutti, trenta e più amici, quando sembrava tutto a portata di mano e la cena era possibile concluderla con le canzoni di lotta.

«MANDARINI» è il nome di una ricetta che non c’è e il racconto è dedicato alla morte del padre, avvenuta una settimana dopo il 12 marzo 1977, che aveva visto sfilare il corteo dei movimenti a Roma in un clima di guerriglia urbana. Sul feretro del padre è già all’opera il compromesso storico: niente bandiere rosse ma il tricolore. Dopo tre giorni di lutto la famiglia decide di andare a mangiare fuori, il posto vuoto a tavola inaffrontabile. E insieme al caffè minuscoli calici di spremuta di mandarino.
Che tutto sia cambiato è evidente in un romanzo successivo, Passami il sale, del 2002, dedicato alla sua difficile vicenda di vicesindaca a Perugia dal 1995 al 1997, eletta come indipendente nelle liste di sinistra e presto costretta alle dimissioni, in cui è costante il richiamo alla cucina, trascurata per quello ritenuto, a torto o a ragione, il bene collettivo. Ahi come sa di sciapo lo pane altrui, verrebbe da chiosare, quando solo il sale rimane per dare sapore a un’esperienza per la quale tanto si è sacrificato, di sé, di relazioni importanti, di futuro immaginato e che poi si scopre affatto condiviso, anzi! Irto di tradimenti, abbandoni, poca stima, molto carrierismo personale mascherato da ideologia condivisa, il sale della vita è l’unica cosa che rimane di tanto spreco di sé, pure se rivendicato come dato di esperienza. E non è poco, se è possibile, quietamente, preparare cibi che siano condimento dell’animo per sé e le persone care, gli amici. E condividere con le altre le Merendanze, titolo del libro del 2004 che racconta di un pranzo/merenda organizzato a sostegno delle donne migranti e anche sostegno a sé, per aiutarsi ad aiutare. Perché, come da ricetta per l’insalata di mele, «per graduare giustamente i vari ingredienti non c’è che un modo: assaggiare, assaggiare, assaggiare», e così anche per l’impegno politico occorre provare, provare e riprovare ancora, perché il dato dell’esperienza e dell’invenzione, come scrive Clara Sereni in calce a Passami il sale, è sempre inferiore alla realtà.

 

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Le tavole della letteratura sono sempre state imbandite. A volte, il cibo stesso, un ingrediente, una ricetta, una tradizione conviviale sono stati i motori della narrazione. Si sono trasformati in personaggi, assumendo su di loro temi simbolici, rappresentando la vita, la morte, il destino, le emozioni. Fino a fine agosto, pubblicheremo una serie di pagine dedicate a romanzi con qualcosa da mangiare. Il logo delle nostre «Cucine letterarie» è «Kitchen range» di Roy Lichtenstein, un’opera del 1962