Uno, quattro, cinque. Sono, dovrebbero essere, i numeri delle tre celle del carcere di San Pietroburgo dove sono stati trasferiti, martedì, i 28 attivisti di Greenpeace in attesa di giudizio. Tra loro c’è anche l’italiano Cristian D’Alessandro. Sono arrivati in treno da Murmansk, al termine di un viaggio durato più di venti ore.
Insieme a loro sono stati portati a San Pietroburgo anche i due giornalisti che erano a bordo della Arctic Sunrise il 19 settembre, giorno in cui la guardia costiera russa ha posto fine senza troppi complimenti alla protesta ingaggiata da Greenpeace contro una piattaforma petrolifera operata da Gazprom nel Mar di Barents, nel più ampio contesto di una campagna contro lo sfruttamento dei fondali artici.

L’imbarcazione è stata sequestrata e i membri dell’equipaggio sono stati condotti nella città portuale di Murmansk, dove la magistratura ha prima emesso dei provvedimenti di custodia cautelare e poi formulato l’accusa di pirateria, che prevede fino a un massimo di 15 anni. Nei giorni scorsi sarebbe stata stralciata. Quelli della Arctic Sunrise, ha fatto sapere Mosca, verranno processato sulla base del reato di hooliganismo, molto più tenue. Starebbe qui il motivo del trasferimento a San Pietroburgo. Il tribunale di Murmansk non ha la competenza sulla fattispecie. Greenpeace tuttavia ha riferito che ufficialmente l’accusa di pirateria non è ancora decaduta.
Sempre a livello legale c’è da segnalare che il 6 novembre s’è tenuta un’udienza della Corte internazionale del diritto del Mare, organo dell’Onu con sede ad Amburgo. L’ha sollecitata l’Olanda (la Arctic Sunrise batte bandiera olandese), invocando la scarcerazione degli attivisti e argomentando che le autorità russe, sequestrando la nave e arrestandone l’equipaggio, hanno violato il diritto internazionale marittimo. Mosca non ha preso parte alla seduta.

Al di là delle vertenze giudiziarie, della piega che prenderanno prossimamente e delle loro possibili implicazioni politiche (Mosca potrebbe usare il caso come ricatto negoziale a livello internazionale), questa vicenda va anche letta in virtù della molla che ha fatto scattare tutto: la partita energetica dell’Artico.

Lì sotto c’è un enorme quantità di petrolio e gas. Novanta miliardi di barili di «oro nero», mille e più miliardi di metri cubi di «oro azzurro»; il 13% delle riserve globali del primo e il 30% di quelle del secondo. Così si stima. Tutto questo alla Russia fa gola, visto che i giacimenti storici, quelli situati in Siberia, tenderebbero a prosciugarsi progressivamente. Senza contare che il Cremlino, a oggi, non è ancora riuscito a sviluppare un’impalcatura economica capace di svincolarsi dalla dittatura dell’export energetico, voce egemone del Pil.

La corsa all’Artico, vista da Mosca, è dunque priorità. Il momento fondante è stata l’iniziativa che ha portato l’esploratore Artur Chilingarov – correva l’anno 2007 – a inabissarsi a bordo di un sottomarino e a infilare la bandiera russa nella faglia artica, che secondo la Russia non è che il proseguimento del suo territorio. Quella mossa servì anche a contenere gli appetiti degli altri stati rivieraschi: Canada, Stati Uniti, Norvegia, Danimarca.
Comunque sia la Russia, finora, è l’unica che ha investito. I colossi nazionali dell’energia, Gazprom e Rosneft, hanno esplorato e iniziato in alcuni casi a trivellare. È questo che Greenpeace contesta, proponendo il bando alle attività energetiche. È questo il motivo che ha portato la Arctic Sunrise, il 19 settembre, a incrociare al largo del Mar di Barents.

Sembra però che i russi abbiano delle difficoltà. Tirare fuori greggio dall’Artico è un’operazione economicamente onerosissima. L’estrazione di un barile costa tra i 200 e i 300 dollari. Si ritiene che sia sostenibile solo se questa somma diminuisse di almeno la metà, se non di più. Tanto che Mosca, recentemente, ha coinvolto alcune grosse compagnie straniere nelle attività nell’Artico. L’obiettivo è avere una tecnologia migliore, che abbassi le spese. C’è anche Eni.