A ulteriore conferma che l’alleanza tra Washington e Riyadh resta salda a dispetto delle recenti frizioni emerse intorno alla figura del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e alla tutela dei diritti umani, ieri l’Amministrazione Biden ha riaffermato l’impegno a difesa dell’Arabia saudita obiettivo di attacchi compiuti dai ribelli yemeniti Houthi contro l’impianto petrolifero di Ras Tanura, alcune strutture della Saudi Aramco a Dhahran e altri centri. L’ambasciata Usa a Riyadh parla di «attacchi odiosi contro i civili e le infrastrutture vitali» e aggiunge che «gli Usa sono al fianco del regno saudita e del suo popolo. Il nostro impegno nel difendere la sua sicurezza è incrollabile». Due giorni fa – la sesta volta negli ultimi mesi, la seconda da quando Joe Biden è alla Casa Bianca – i bombardieri B-52 dell’aviazione statunitense, hanno sorvolato il Golfo per lanciare un nuovo ammonimento all’Iran.

Domenica non ci sono stati morti o feriti ma l’accaduto ha dimostrato le capacità belliche dei combattenti sciiti Houthi sostenuti dall’Iran. L’operazione ha visto l’impiego di 14 droni e otto missili balistici e preso di mira anche Dammam, Asir e Jazan. La Coalizione a guida saudita sostiene di aver abbattuto 12 droni e due missili balistici. Appare chiaro che un futuro e più inteso attacco potrebbe mettere in ginocchio per settimane la produzione e l’esportazione di greggio da parte di Riyadh che dal 2015 è impegnata, con i suoi alleati, in una offensiva in Yemen che ha fatto decine di migliaia di morti e provocato una carestia. Un raid del 2019, rivendicato sempre dagli Houthi, costrinse l’Arabia saudita a fermare temporaneamente più della metà della sua produzione di greggio. Ras Tanura è un sito strategico poiché include il più grande impianto di carico di petrolio offshore del mondo. Di conseguenza domenica il prezzo del greggio Brent è salito fino a toccare in poche ore i 70 dollari al barile, ai massimi da gennaio 2020.

I sauditi ieri hanno accusato l’Iran di aver trasferito missili e droni agli Houthi. Chiamata in causa, Tehran ha ricordato che le «radici» degli ultimi attacchi sono «l’aggressione lunga sei anni e l’oppressione palese di milioni di yemeniti». Quindi ha esortato Riyadh «a mettere fine alla guerra e all’assedio e questo certamente aiuterà l’attuazione delle iniziative delle Nazioni Unite e le soluzioni diplomatiche». L’Iran ha sempre negato di essere dietro, anche indirettamente, agli attacchi avvenuti negli ultimi anni contro mercantili e petroliere nel Golfo e gli impianti petroliferi sauditi. Comunque sia, si sta ricompattando il fronte israelo-arabo contro l’Iran, proprio nel momento in cui la diplomazia prova a rilanciare il dialogo tra la Casa Bianca e Tehran sull’accordo nucleare del 2015 (Jcpoa).

Un coro di condanna si è alzato dalle monarchie sunnite del Golfo. Il Qatar, che fino a pochi mesi fa era ai ferri corti con Riyadh, in un comunicato afferma perentorio che prendere di mira «installazioni e impianti vitali è un atto sovversivo che viola tutte le norme e le leggi internazionali». Gli Emirati, alleati dei sauditi, esprimono una «ferma» condanna dell’attacco «codardo» che ha preso di mira le «forniture energetiche» ed esortano la comunità internazionale a adottare una posizione «immediata e decisa per fermare queste azioni». La Coalizione guidata dai sauditi sostiene che gli Houthi sarebbero stati incoraggiati dalle decisioni prese dall’Amministrazione Biden che il mese scorso ha revocato la designazione di «organizzazione terroristica» del movimento sciita annunciata da Donald Trump.