Bologna è al 188esimo posto. Il Politecnico di Milano al 28esimo nell’area disciplinare dell’Engineering and Technology. La classifica annuale appena uscita, compilata dal Qs (Quacquarelli Symonds) University Ranking include 26 atenei italiani fra i primi 800 del mondo. «Il dato non dovrebbe scoraggiarci, se si considera che esistono circa 17 mila atenei. Quando si parla di università non si dovrebbe avere la logica della cattura di una medaglia». A dirlo è Giuseppe De Nicolao, professore di Automatica all’Università di Pavia e redattore di Roars (Return on Academic Research), sito che si occupa delle classifiche internazionali degli atenei, spesso utilizzate dagli stessi media per bacchettare il nostro sistema.

La prima è stata compilata nel 2004 dall’Università di Shangai usando come parametri il numero di premi Nobel, l’internazionalizzazione, (ovvero il numero di studenti e docenti stranieri), la percentuale di citazioni e pubblicazioni, con particolare riguardo per quelle apparse sulla rivista Nature. «Possono risultare sensate valutazioni di questo tipo? – chiede retorico il professore – Sulla stessa rivista Nature poco tempo dopo è uscito un articolo sull’attendibiltà di queste indagini. La produzione scientifica della nazione, per cui tra l’altro ci piazziamo all’ottavo posto, non può e non deve essere valutata sul numero di professori provenienti dall’estero».

Né l’Università di Shangai, né il Times Higher Education World, né il QsRanking hanno pensato d’includere tra gli indici di valutazione la sostenibiltà dei costi richiesti per frequentare gli atenei. De Nicolao spiega perchè: «Queste classifiche sono fortemente ideologiche, è il marketing ad orientarle. Le università che vincono le medaglie,come il Mit, Harvard, Cambridge e la Columbia hanno rette che arrivano a 60 mila dollari e non vogliono conteggiare la loro assoluta insosteniblità».

In cifre, il 40% del bilancio di Harvard è uguale all’intero Fondo ordinario a disposizione degli atenei italiani. Iniziare a parlare di accesso all’università nell’ambito di prestigiose classifiche mondiali potrebbe far saltare agli occhi di tutti le conseguenze del sistema dei prestiti d’onore, che sta indebitando milioni di persone nei paesi in cui è più utilizzato (Stati Uniti in testa).

«Con questi criteri s’insiste nel dipingere la formazione come una specie di olimpiade o un motivo di vanto. Si parla invece di un servizio essenziale». E conclude indignato il professore: «Secondo loro dovremmo fare come in Gran Bretagna o negli Stati Uniti e concentrare tutti i fondi in pochi maxi-poli d’eccellenza, lasciando le periferie degli stati sempre più sprovviste di risorse e sempre meno in grado di invertire questa tendenza. Parlando di ospedali , si potrebbe concepire di lasciarne solo 3 o 4 in tutto il nostro territorio?».