In un thriller storico da poco uscito in libreria, L’assassinio di Pitagora (Salani, 2014), lo scrittore madrileno Marcos Chicot tesse una trama, del tutto originale e magistralmente raccontata, di intrighi, sangue e omicidi nell’antica Grecia, in una comunità di pensatori, matematici e filosofi, riuniti attorno alla figura carismatica di Pitagora, maestro ormai anziano ma ancora molto amato dai suoi allievi, tra i quali cerca un erede capace di guidare la sua scuola dopo la sua dipartita.

È proprio tra i suoi allievi, però, che comincia a serpeggiare il terrore: una dopo l’altra, molte delle persone vicine al filosofo cominciano a morire, uccise in modi che sono crudeli ma insieme straordinariamente elaborati, quasi l’assassino stesse lanciando, attraverso quegli omicidi, un guanto di sfida al genio di Pitagora e all’acume della sua intelligenza. I luoghi della narrazione sono quelli di Kroton, gioiello magnogreco di millenni fa. «La bellezza dei numeri era l’eco del loro potere» diceva l’anziano maestro a proposito dei suoi allievi. Collocata una pergamena sul tavolo, Pitagora disegnò la tetraktys, quindi prese a tracciare linee e triangoli. Un po’ alla volta, i tratti divennero figure sempre più complesse. Notò che la sua mente si elevava sopra la materia, dando inizio a un dialogo con le forze occulte della natura. A Crotone tutti lo veneravano. Al principio veniva visto come un’abbagliante apparizione, ma in pochi anni il suo fulgore era diventato un’abitudine.

Pitagora in politica

La scuola di Pitagora prosperò per una trentina d’anni, finché i pitagorici si immischiarono nelle faccende politiche della città, appoggiando la fazione sbagliata. Furono prima perseguitati e poi cacciati, la scuola fu bruciata, Pitagora fuggì a Metaponto, dove morì poco dopo. Cosa è rimasto millenni dopo di quella storia di fasti e prestigio? Poco o nulla. Sembra che i crotonesi abbiano assassinato la propria storia, rimosso le antiche vestigia. A Capo Colonna, a pochi chilometri dalla città, i greci avevano dedicato a Hera Lacinia un tempio con 48 colonne, allineate secondo la direzione dei raggi del sole nascente. In una notte stellata del mese di maggio le donne si recavano in processione al tempio, per chiedere alla dea il dono della fertilità. In epoca bizantina la devozione verso la dea si trasferì a Maria Theotokos, la madre di Dio, ma la tradizione della processione rimase inalterata, e continua ancor oggi. Ma se qualcuno volesse ripercorrere gli antichi luoghi pitagorici rimarrebbe deluso. L’armonia tra musica, numeri e natura declamata dal filosofo di Samo è totalmente assente. L’area archeologica di Capo Colonna è nella top five della speciale classifica «Mare monstrum», stilata ogni anno da Legambiente, sugli ecomostri marini. Nei luoghi cari ad Achille, Eracle e Menelao dove, secondo la tradizione mitologica, il promontorio Lacinio era un eden in cui mandrie di animali sacri pascolavano senza pastore in un rigoglioso bosco-giardino, oggi permangono indisturbati ben 35 manufatti abusivi. Uno scempio di cemento, fatto di villette, condomìni, scalinate a mare e cortili, che impedisce il completamento del parco archeologico. E il sindaco, Peppino Vallone (Pd, corrente franceschiniana), sta lì fermo ad ammirare questi mostri. Nonostante una sentenza della Cassazione del 2008, e un iter giudiziario cominciato dal 1995, abbia sancito che quelle case vanno abbattute, che il parco di Capo Colonna non può esser tagliato in due dai manufatti confiscati.
Tutto tace, in un silenzio inquietante. Mentre gli abusi aumentano, la volumetria di quelli esistenti cresce, i proprietari cambiano. Un surreale mercato immobiliare all’interno di un’area archeologica. Applausi.

Gladiatori e reduci

Da quasi vent’anni su una collina, a due passi dallo stadio comunale, fa cattiva mostra di sé una spada romana, un enorme gladio. Lo volle erigere il fascistissimo sindaco di allora, Pasquale Senatore, a cui, dopo una vita da consigliere di minoranza del Msi, uno scherzo del destino (e gli errori della sinistra) avevano fatto il regalo di consegnargli le chiavi della città. E lui iniziò a togliersi un po’ di sfizi. Vuoi mettere il gusto a far del revisionismo in quella che era la Stalingrado del Sud? E, così, ecco eretta una spadona, alta 6 metri, «per tener vivo il ricordo anche di chi ha combattuto dalla parte giudicata sbagliata» disse al taglio del nastro, nel lontano 1997. Un omaggio ai combattenti fascisti, ai reduci di Salò, a rifiuti della storia, in una città roccaforte operaia, dove il Pci non andava mai sotto il 40%. Il Pci, appunto.

Perché gli eredi del partito comunista in questa storia non sono certo esenti da colpe. Quando il sindaco Senatore terminò il suo mandato il potere, infatti, ritornò alla sinistra. Che anziché mandare i bulldozer e demolire questo sfregio a storia e memoria, cercò di conviverci. «Non abbattere il gladio, ma trasformarlo in qualcos’altro» disse il neosindaco Vallone nel 2006. Per questo indisse persino un concorso pubblico dove far confluire le idee di artisti, ingegneri, architetti. Insomma, la riconversione democratica di un simbolo fascista. Una roba mai sentita. E di cui, infatti non si seppe più nulla. Perché di quel concorso nessuno conosce i risultati. Mentre il gladio sta lì immobile a guardare dall’alto la perdita di memoria di una comunità. Lo scorso 25 aprile un network di organizzazioni (Arci, Anpi, Cgil, il Sol dell’avvenire, Federazione degli Studenti, Giovani Democratici) ha lanciato la campagna «Liberiamocene», per la trasformazione del gladio in un monumento antifascista e di pace. Ma forse per liberarsene davvero sarebbe più comodo mandarci una ruspa.

Un castello in vetrina

Tra i monumenti inseriti nella speciale banca dati dell’Istituto Superiore per la conservazione ed il restauro del ministero dei Beni Culturali, il Castello di Carlo V di Crotone è una fortezza dall’enorme valore storico. Ma c’è modo e modo di restaurare. Per l’archistar Marco Dezzi Bardeschi a cui è stata commissionata l’opera, valorizzare il Castello significa installarvi degli alberi di metallo, un’invasiva pensilina, e una torre in vetro. Ed ecco servito un castello aragonese del terzo millennio. Una roba da mettersi le mani nei capelli. Un pugno in faccia, uno schiaffo alla storia. Costruito nell’840 d.c. per difendere la città dalle incursioni dei Saraceni, oggi è sotto attacco di stravaganti architetti in vena di esperimenti. Di questo avviso sono le associazioni del centro storico che si battono per la difesa del maniero: «Non c’è nulla di modernizzatore in questa opera che distrugge il volto originario del castello – spiegano al manifesto – e da mesi andiamo, invano, chiedendo spiegazioni al ministero, alla soprintendenza, alla giunta comunale. Noi abitanti del centro storico stiamo solo subendo questo scempio che sembra materia privata di pochi. Abbiamo più volte chiesto con centinaia di lettere la documentazione. Non ci hanno mai risposto. Fermo restando che il castello sarà inibito ai suoi abitanti e ai turisti per quindici anni. Tutto per fantasiosi e inconcludenti cantieri». Un fiume di danaro, quasi 20 milioni di finanziamenti, per una riqualificazione che esiste solo nella mente contorta di qualcuno. Uno sventramento e una sfigurazione. Sulla pelle degli abitanti. «Perché non si è proceduto con un concorso progettuale, magari internazionale, e si è preferito invece un affidamento ad personam ad un noto progettista? Perché la cittadinanza è tenuta all’oscuro di tutto?» chiedono le associazioni.

Sull’assegnazione sospetta hanno presentato un esposto in Procura. Il 15 maggio si è tenuta la conferenza dei servizi decisoria, a porte chiuse e con esito interlocutorio. Le associazioni sono state fatte accomodare fuori. Tutto in segreto e assenza totale di partecipazione. Venti milioni per un progetto che alla popolazione non piace, nella città più povera d’Italia, pare davvero uno spreco. Cos’ha da dire il ministro Franceschini?