Passando, con estrema leggerezza, dalle atmosfere fantascientifiche dei suoi primi lavori alla gangster story (in Brooklyn senza madre) dal romanzo di formazione in La fortezza della solitudine alla narrativa post 9/11 in Chronic City, dal realismo sociale dei Giardini dei dissidenti allo splatter di Anatomia di un giocatore d’azzardo, fino al noir nel Detective selvaggio, Jonathan Lethem ha sistematicamente e brillantemente sconvolto le convenzioni dei generi letterari. Non fa eccezione a questa camaleontica vitalità il suo ultimo lavoro, L’Arresto (La nave di Teseo, traduzione Andrea Silvestri, pp. 333, € 20,00) ennesima conferma di come, continuando a rielaborare gli stessi temi attraverso originali sperimentazioni sui generi e sottogeneri narrativi (parodiati, imitati, contraffatti, distrutti), Lethem abbia raggiunto una voce inconfondibile.

Nell’Arresto, ogni tecnologia ha smesso di funzionare, causando collasso sociale, regressione a sistemi di vita pre-industriali e rilocalizzazione globale: «Gli Stati Uniti non furono sostituiti da qualcos’altro», spiega il narratore onnisciente. «Furono sostituiti dal posto in cui ognuno si trovava. Il posto in cui capitava di risiedere al momento dell’Arresto, che dopo una partenza a sprazzi si era imposto dalla sera alla mattina».

Bloccato dall’Arresto nella penisola del Maine, dove ha sede la fattoria biologica gestita dalla sorella Maddy, il protagonista del romanzo, lo sceneggiatore Alexandre (Sandy) Duplessis, si ricicla con il soprannome di Garzone, come aiuto-macellaio e tuttofare, cancellando le tracce di ciò che era stato, almeno finché dal suo passato non riemerge il vulcanico produttore Peter Todbaum, a bordo della Saetta Azzurra, una supermacchina «alimentata da un reattore nucleare adattato all’esoscheletro di un veicolo usato in precedenza per scavare tunnel sotto l’oceano». La presenza di Todbaum, narratore trascinante che racconta ai paesani stupefatti il suo mirabolante viaggio da costa a costa prendendo a prestito scene e fondali dalla narrativa e dal cinema post-apocalittici, sembra rimettere in moto il tempo raggelato: «Dopo l’Arresto, era parso che gli assalti al tempo – la sua frammentazione, o la sua velocità folle – fossero stati a loro volta Arrestati. Al tempo era stato permesso di ricomporsi. Di fluire nei corpi secondo un ritmo imperturbato. La supermacchina scardinava queste idee, mettendone a nudo il sentimentalismo».

Lo stesso produttore, del resto, dichiara di essersi spinto fino al New England, fra ogni sorta di pericoli, per trovare la soluzione all’enigma dell’Arresto, che gli pare riprodurre gli incubi immaginati nell’interminabile serie televisiva che Garzone, prima, e Maddy, poi, stavano scrivendo per lui: Un altro mondo ancora, storia fantascientifica di due Terre alternative, «la prima una cyberdistopia, la seconda una desolazione di sussistenza e saccheggi». Mentre Garzone, «uomo di raccordo e mediatore», si arrovella per difendersi contro l’estraneo venuto a turbare, «come una visione futuristica dal passato», la tranquillità del mondo edenico post-apocalittico, gli hippies che ruotano intorno alla fattoria della sorella e tutti i bizzarri personaggi che popolano il villaggio orchestrano un inquietante atto rituale di resistenza all’intruso.

Mentre segna un ritorno di Lethem alla fantascienza dei suoi primi romanzi (l’ambientazione bucolica e la raffigurazione dell’atipica comunità rurale rimandano a Ragazza con paesaggio, il viaggio attraverso un’America devastata da una inspiegata catastrofe a Amnesia Moon), l’Arresto ripresenta anche altri temi ricorrenti nello scrittore americano: il carattere mediocre del protagonista, estraneo al mondo che lo circonda, «sempre localizzabile a metà tra le cose, e dunque testimone in entrambe le direzioni, empatico sensale tra poli inconciliabili»!; la donna volitiva e autosufficiente, chiara eco della figura materna perduta in tenera età che, per stessa ammissione dell’autore, torna con insistenza nelle sue pagine; la comunità hippy o bohèmienne, quasi un tormentone autobiografico, già presente dalla Fortezza della solitudine fino al Detective selvaggio.

Tornano inoltre le figure di contorno, le apparecchiature e i gadget che sembrano usciti dal mondo dei fumetti; l’attenzione costante al rapporto tra individuo e ambiente, sia esso urbano o, come in questo caso, naturale (non possono sfuggire i punti di contatto tra Garzone estraniato nella sperduta penisola del Maine e Lionel Essrog di fronte all’oceano, al termine di Brooklyn senza madre).
La sovversione della distopia si attua da una parte tramite la parodia e la messa in discussione delle cautionary tales, quei racconti che dovrebbero mettere in guardia da un pericolo e invece finiscono per affascinare i lettori; e d’altra parte attraverso un’attenzione al lessico persino maniacale. Ogni nome è un indizio, contiene una chiave per l’interpretazione della storia o ne anticipa la conclusione.

Traducendo il nome del villaggio, «Tinderwick», con «Acciarino», quello della supermacchina, «Blue Streak» con «Saetta Azzurra» e il soprannome «Journeyman» con «Garzone», tutti termini desueti che rimandano al mondo delle favole, Andrea Silvestri ha scelto di leggere L’Arresto come una fiaba. Tuttavia, un «journeyman» non è un galoppino, bensì un artigiano di media levatura, in grado di fare un lavoro buono, ma non eccezionale; nel termine «Tinderwick», poi, si trovano due allusioni che vanno perse in traduzione: un’anticipazione del finale della vicenda e una spiegazione per l’inserimento nel testo di fotogramma dal film horror The Wicker Man: «wick», infatti, è lo stoppino, e il «wicker man» era una enorme figura in vimini, piena di vittime destinate al rogo, usata dagli antichi Druidi per sacrifici umani rituali. Del resto, anche il cognome di Garzone, Duplessis, rimanda a plessis, termine usato nel francese antico per indicare un sistema di difesa fatto di siepi intrecciate in uso presso i Celti, che ha molto in comune con la misteriosa costruzione cui lavorano gli abitanti del villaggio dopo l’arrivo di Todbaum.

E se la fine di questo personaggio è già inscritta nel suo nome, che in tedesco significherebbe «albero di morte», il soprannome affibbiato dal produttore al suo sceneggiatore, Sandman, rimanda, prima ancora che al racconto omonimo di Hoffman, a una fortunata serie a fumetti di Neil Gaiman, il cui protagonista, Sandman, l’uomo che procura sogni ai dormienti cospargendone gli occhi con sabbia magica, vive, come Sandy Duplessis, in solitudine, avendo sporadicamente contatti solo con la sorella, Morte. Quanto al resto, la natura mediocre e inconcludente dello sceneggiatore è già indicata dal diminutivo «Sandy» (letteralmente, «sabbioso»), che ne suggerisce la condizione «incerta e ambivalente: né con i piedi saldamente piantati sulla terra né disponibile a prendere il largo».

Non per caso, proprio alla fine del romanzo, Lethem definisce le pagine di un libro imbrattate da escrementi di gabbiani «una forma encaustica di critica letteraria», facendo ironicamente riferimento a una tecnica pittorica romana basata sull’uso di colori sciolti nella cera, l’encausto. La frase seguente, l’ultima del romanzo, non lascia dubbi sul senso finale dell’apologo: «Erano stanchi delle vecchie storie, quegli uccelli. Volevano sentirne di nuove».