Gli archi di trionfo eretti appena dopo l’uccisione del jihadista Anis Amri, dal governo e dalle autorità italiane sono quantomeno fuori luogo. Tanto più in un clima islamofobico e giustizialista alimentato sia dalla peggiore stampa di destra che si appella ai “plotoni d’esecuzione”, titola “una bestia di meno” e invoca fantomatiche “Guantanamo d’Europa” (visto il grande risultato di quella americana); sia dal protagonismo neo-xenofobo pentastellato, che chiede semplicemente di cacciare “tutti gli irregolari”, chiudere le frontiere e sospendere Schengen.

Più appropriato il dolore e la preghiera per i civili colpiti dalla spirale guerra-terrorismo, com’è accaduto ieri a Sulmona per l’addio a Fabrizia di Lorenzo.

Per l’uccisione di Anis Amri il manifesto ha titolato «Uno sparo nel buio». Perché di buio si tratta. L’entusiamo per il “buon tiro” in una sparatoria raccontata come inevitabile e, a quanto pare casuale, che ha portato all’uccisione del giovane tunisino presunto attentatore di Berlino che alla guida di un Tir ha falciato 12 vite umane, dovrebbe invece perlomeno far riflettere non solo sulle possibili ritorsioni sui due poliziotti protagonisti o, come si avverte solo ora, o sulla polizia. Ma stavolta sul bersaglio Italia. Le contraddizioni evidenti tra Polizia di Stato e governo sulla pubblicità dei nomi degli agenti coinvolti è ancora sotto gli occhi di tutti.

Inoltre va detto che dal punto di vista delle indagini – a proposito di professionalità della polizia – sarebbe stato sicuramente meglio averlo vivo il jihadista. Ora forse ne sapremmo di più sulle sue intenzioni, sui complici che probabilmente ha avuto nel suo lungo attraversamento dell’Europa «blindata». E su come si è radicalizzato. Che influenza hanno avuto i legami «familiari» e la setta dell’Isis d’appartenenza, dopo l’arresto di tre tunisini tra cui un cugino.

Ma soprattutto gli archi di trionfo sono a dir poco inadeguati se solo si considera che i processi di radicalizzazione islamica sono strettamente connessi all’attuale dinamica della guerra in Siria e Iraq e anche in Libia. Per meglio dire alla guerra che nella fase attuale vede lo Stato islamico sulla difensiva, dopo la riconquista di Aleppo da parte delle truppe di Assad. Ma con i fronti aperti di Idlib, Raqqa e Mosul; e in Libia, nonostante la sconfitta mai definitiva a Sirte, ancora con al Qaeda a Derna e le frontiere permeabili con il sud sahariano e la Tunisia. L’anno che si apre se dovesse vedere una sconfitta jihadista su tutti questi fronti, e saranno battaglie sanguinose, vedrà la ritirata dei combattenti islamici di diversa provenienza nei paesi del Medio Oriente con una scia sanguinosa di scontri – già iniziata in Libano e Giordania – proprio dove sono arrivati milioni di profughi in fuga. Soprattutto in Turchia, alle prese da molti mesi con la vendetta dell’Isis dopo il voltafaccia storico dell’alleanza che impegnava Ankara – in traffici di armi, petrolio, finanziamenti e addestramento – a difesa dei santuari dello Stato islamico.

Senza dimenticare le migliaia di foreign fighters destinati a tornare nelle capitali occidentali da dove sono partiti, allora nel silenzio dei Servizi segreti che, taciturni, li hanno visti partire verso la guerra consapevoli che in Turchia sarebbero stati ben accolti.

A che servono gli archi di trionfo per un episodio se noi, Europa e Occidente tutto, non siamo stati dalla parte giusta della storia. Se dimentichiamo che noi, a seconda delle nostre strategie geopolitiche ed economiche, abbiamo utilizzato i jihadisti per i nostri scopi secondo un ben preciso e reiterato «protocollo». Prima in Afghanistan, poi in Bosnia, e più recentemente in Libia, infine in Siria. Un protocollo sanguinoso di distruzione, vittime e rovine. Un disastro umanitario paragonabile solo a quello della Seconda guerra mondiale che ha provocato solo in Siria 7 milioni di profughi e più di 200mila morti. In questi numeri mostruosi ora si vuole alimentare l’odio, pescando nel mucchio. Dimenticando che sono 6 o 7 i profughi riconducibili a legami con l’Isis, come testimonia la catena di attacchi da Charlie Hebdo, al Bataclan, a Molenbeek e ora Berlino. E 5mila, è il record del 2017, i migranti morti nel Mediterraneo, disperati in fuga dalle nostre guerre e dalle nostre strategie di potenza per l’Africa. Ora costruiamo solo l’ideologia del «posto sicuro»: l’Afghanistan, dove Merkel caccia i rifugiati che rifiuta; il Mali della guerra civile e con tanto di accordo; il Niger base fondamentalista; la Turchia nelle mani del Sultano atlantico, ora filo-Putin, Erdogan; la tanto agognata quanto instabile «nostra» Libia coloniale. Dappertutto regna il caos, la guerra, la violazione dei diritti umani, il conflitto interetnico. C’è davvero poco da trionfare.

Ma c’è un avvenimento in più che illumina la scena. La destra xenofoba e islamofobica ha invocato in questo periodo il «modello israeliano» di repressione del terrorismo. Venerdì 23 è accaduto un fatto storico. Anche per l’astensione degli Stati uniti, il Consiglio di sicurezza Onu ha votato contro le colonie d’Israele nei Territori occupati palestinesi. Siamo sicuri che Matteo Renzi, a riposo mentre Gentiloni gli tiene le posizioni, deve avergli twittato: «Allucinante». Certo è solo una risoluzione; i palestinesi ne vantano almeno altre tre inapplicate. Ma quel voto è una condanna proprio del modello israeliano tanto invocato: infatti poggia su basi illegali che violano il diritto internazionale. E se quella occupazione militare continua – senza dimenticare il valore simbolico per l’intera diaspora integralista del Medio Oriente che ha l’occupazione di uno dei due luoghi santi dell’Islam – quel che può accadere ora ricade sulle responsabilità del premier israeliano Netanyahu e del neo-eletto Donald Trump.

P.s. Ieri ad Aleppo un attentato dell’Isis ha fatto 30 vittime. Per loro, qui da noi, non piangerà nessuno.