Un sistema elettorale non è solo un sistema di regole inscritto all’interno di un assetto istituzionale: è un meccanismo che, nel tradurre i voti in seggi, condiziona anche le aspettative degli attori, le logiche che guidano le loro scelte. E che può orientare anche la futura evoluzione del sistema politico, anche quando – ed è un caso frequente – dal gioco strategico emergono effetti perversi e imprevisti. Nel valutare le possibili ipotesi di riforma, quindi, non esistono solo criteri di costituzionalità da rispettare. Vanno anche prese in considerazione valutazioni che potremmo definire di ragionevolezza politica, valutazioni cioè che si interrogano sugli effetti politici e sistemici che i singoli tasselli di un modello elettorale possono produrre. Da questo punto di vista, non occorre spendere molte parole sulla totale irragionevolezza del sistema delle soglie complessivamente disegnato dalla prima versione dell’Italicum: non è solo il vulnus inferto al principio della rappresentatività che va sottolineato, ma gli effetti distorsivi che ne derivano.

Vedremo, nei prossimi giorni, cosa emerge dai lavori parlamentari: sembra chiaro, tuttavia, che ci si sta incamminando sulla via, sempre più tortuosa, di aggiustamenti che, mirando a coprire alcune falle da una parte, molte altre ne aprono, dall’altra.

Si prenda ad esempio la soluzione escogitata per accontentare la pretesa berlusconiana di un totale controllo sui propri eletti: la formula ibrida (capolista «bloccato», gli altri candidati mandati al massacro della lotta per le preferenze) condurrebbe ancora ad una camera in gran parte di «nominati», giacché solo il partito che ottiene il premio di maggioranza potrebbe contare su un numero prevalente di eletti scelti dal voto dei cittadini. Per di più, la previsione delle candidature plurime in diverse circoscrizioni (a sua volta resa necessaria dalla assoluta aleatorietà del meccanismo top down di distribuzione territoriale dei seggi) condurrebbe ancora ad una totale subordinazione al gioco post-elettorale delle opzioni. Di fatto, si aprirebbe una durissima concorrenza per la conquista del «secondo posto» utile all’elezione, ma si affiderebbe poi la sorte dei singoli candidati alla scelta discrezionale del capolista pluri-eletto.

Come si vede, un gran pasticcio: ma perché si è giunti a questo punto? Si possono individuare due cause fondamentali.

In primo luogo, tutto il dibattito sulla riforma elettorale è condizionato negativamente dall’assunzione di un presupposto che è tutt’altro che scontato: dall’idea, cioè, che il sistema adottato dovrebbe consentire – «la sera stessa delle elezioni», come comunemente si dice – l’individuazione di un «vincitore». Ma questo presupposto non è affatto «indiscutibile»: anzi, se si escludono i sistemi presidenziali e semi-presidenziali (nei migliori dei quali, peraltro, agiscono molti altri meccanismi di bilanciamento dei poteri), nessuno tra i sistemi elettorali vigenti nelle democrazie europee garantisce «a priori», e in assoluto, questo esito. Essendo, appunto, democrazie parlamentari vi è sempre uno spazio legittimo per una legittima mediazione politica post-elettorale, che in sé non ha nulla di esecrabile. «Mediazione» sembra essere divenuta una parola impronunciabile (salvo poi, tranquillamente, fare ben altri «patti», più o meno segreti…).

Il dibattito italiano ha introiettato una condizione cronica di instabilità e destrutturazione del sistema politico, – una condizione che viene considerata oramai come un dato fisiologico e irreversibile. E l’unica risposta sembra quella di un assetto «direttistico» e plebiscitario della competizione elettorale, assumendo un’opzione (quella dell’«investitura» di un governo, di un leader e di una maggioranza) che non è, e non può essere considerata, come l’unica possibile. E si spacciano per verità indiscutibili delle inferenze del tutto arbitrarie: come quando si proiettano gli ultimi risultati – legati agli effetti di un determinato sistema elettorale – su quelli ipotetici che risulterebbero dall’applicazione di un altro modello, deducendo così la «ingovernabilità», ad esempio, che deriverebbe da un sistema proporzionale. Ma, per l’appunto, si ignora in tal modo che un sistema proporzionale (con una soglia, mettiamo, al 4%) indurrebbe una logica della competizione e incentiverebbe logiche di scelta, negli elettori, assolutamente incomparabili con quelle che prevalgono con i sistemi «a premio».

Queste arbitrarie assunzioni si riflettono negativamente sulla discussione sui possibili modelli elettorali da adottare. Sistemi elettorali, ovviamente, ce ne sono tanti e diversi, ma la pre-condizione della loro efficacia sta nella loro coerenza interna. Si può ritenere l’uno o l’altro più adatto alle condizioni specifiche del nostro paese; ma non si può fare una sorta di bricolage, imboccare la via perigliosa di un gioco «combinatorio» tra logiche diverse. Incongruenze e contraddizioni, per questa via, sono inevitabili.

E qui entra in gioco il secondo fattore: come mostrano le analisi delle elezioni politiche del 2013 e delle Europee 2014, e come mostrano anche le recenti elezioni regionali, l’elettorato italiano è oggi caratterizzato da un elevatissimo livello di volatilità, che naturalmente prevede pienamente anche l’opzione del non-voto. Ebbene, le riforme elettorali, in genere, come suggerisce la letteratura sull’argomento, sono un gioco strategico in cui intervengono in modo decisivo le aspettative di ciascun attore. Questo, naturalmente, di volta in volta, restringe l’arco delle soluzioni idealmente possibili e costringe ad una mediazione che tenga conto delle opzioni che ciascun attore ritiene di dover adottare. Tuttavia, costituisce una regola prudenziale – e un principio a cui legislatori e politici saggi dovrebbero attenersi – quella di non fare troppo affidamento sulle suggestioni che derivano dagli ultimi sondaggi. E non perché questi, necessariamente, sbaglino: anzi, in questo momento, sembrano proprio concordare sulla estrema volubilità degli umori degli elettori, in presenza di un sistema dei partiti altamente destrutturato. Una regola prudenziale dovrebbe suggerire che una possibile riforma tenga conto di questo sfondo di radicale incertezza e definisca quindi un sistema elettorale quanto più sottratto alle contingenze della vicenda politica. Invece no: si affrontano questi temi, e quelli delle riforme costituzionali, con una faciloneria e una superficialità sconcertanti, con l’occhio rivolto alle convenienze del giorno dopo. Ma questo andazzo non promette nulla di buono, per la nostra democrazia: e quanti ne hanno a cuore le sorti, dovrebbero fare tutto il possibile per fermarlo.