Le prime immagini che vorrei vedere nel 2019, e in diffusione da blockbuster, sono quelle di A Rainy Day in New York, il nuovo film di Woody Allen bloccato da Amazon, il colosso multinazionale che lo ha prodotto, sulla scia delle accuse di molestie mosse al regista da una delle figlie adottive di Mia Farrow, Dylan. Una vicenda peraltro chiusa dopo accurate indagini che scagionarono Allen ma ritirata fuori da allora – i fatti in questione risalgono al 1992, quando Dylan aveva sette anni – ciclicamente.

AL DI LÀ del film in sé tutto ciò che lo circonda – compresa la presa di distanza dei suoi attori, Timothée Chalamet in testa – è estremamente rivelatorio sul nostro tempo, e segna una brutta sconfitta simbolica del #MeToo. Confondere infatti la caccia alle streghe con la presa di parola delle donne significa cadere nell’equivoco che, ancora una volta, azzera il potenziale di libertà nella censura e nel controllo (ipocrita) su cui si fondano tutte le «discriminazioni» del gender. Non è certo continuando a perseguitare a Polanski – di cui dovremo scoprire nell’anno il nuovo film, J’accuse, ispirato alla storia di Dreyfus – o appunto oscurando Allen che il capoufficio di turno (o il padrone o il «superiore» ) non metterà più le mani addosso a una donna perché proprio la censura (e l’autocensura) del silenzio sono gli strumenti che meglio proteggono questo sistema.

IL CONFORMISMO di un immaginario imbavagliato è anche ciò che meglio spegne le intelligenze lasciando campo libero all’ottundimento del «fake» così gradito – e utile – ai nostri governanti. Le (mie) classifiche a venire mettono al centro quelle immagini che rompono gli equilibri, indocili e insofferenti, grandi produzioni o indipendenti, nomi noti o scoperte, ciò che conta è l’energia del loro movimento.
Sono cineasti che sanno entrare nelle pieghe dei conflitti del tempo come Pedro Costa al lavoro su As filhas do fogo, Apichatpong Weerasethakul che con Memoria (protagonista Tilda Swinton) indaga paura e violenza nella Colombia degli anni ’70 e ’80, Philippe Garrel – che sta preparando Le sel des larmes o Lech Kowalski che dà voce agli operai francesi in lotta (GM&S, Bordel!). E Paul Verhoeven che in Benedetta racconta la storia di una monaca omosessuale nell’Italia del ’600 o Marco Bellocchio che in Il traditore si confronta con la figura di Buscetta ( e di sicuro starà girando Tonino De Bernardi il nostro più irriducibile underground ).

POI IL TARANTINO di Once Upon a Time in Hollywood o gli strabismi acidi di Korine – The Beach Bum già annunciato da tempo (ma nell’aria c’è anche Sauvagerie di Miguel Gomes). Senza dimenticare The Irishman di Scorsese targato Netflix che rimanda a un altro problema insoluto dell’anno che sta finendo. Dove lo vedremo? A saperlo.