Durante la recente Giornata europea degli antibiotici, è stato lanciato un messaggio preoccupante: la resistenza agli antibiotici rappresenta una delle minacce più temibili per la salute pubblica. E i dati lo confermano. Nel 2050, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ci saranno dieci milioni di morti nel mondo, soprattutto in Africa, a causa della resistenza agli antibiotici. Nella sola Unione europea ogni anno i decessi sono circa 30 mila. Numeri preoccupanti dovuti all’aumento delle infezioni da batteri che gli antibiotici non riescono più a curare.

Quali sono le cause di questo fenomeno? Secondo gli esperti vanno ricercate nell’utilizzo massiccio di questi farmaci, anche negli ospedali, e spesso autoprescritti senza sentire il medico, ma anche nel loro impiego negli allevamenti, specie quelli intensivi, che creano resistenza che può essere trasmessa all’uomo con il contatto diretto o attraverso la carne. «Quando un animale assume antibiotici, i batteri sensibili vengono uccisi o inibiti, mentre quelli resistenti sopravvivono o addirittura, venendo meno la competizione con altre specie, possono velocemente moltiplicarsi. Negli allevamenti intensivi – spiega Fabrizio Agnoletti, Direttore del Dipartimento di patologia animale e sanità pubblica dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie – il numero elevato di capi presenti consente l’espansione dei cloni batterici resistenti. In queste situazioni potranno essere colonizzati molti animali rendendo possibile il passaggio all’uomo attraverso il contatto diretto con gli animali, come per esempio durante la mungitura di bovini portatori di stafilococco aureo meticillino resistente, o tramite il contatto con le superfici degli ambienti di allevamento, dove si depositano polvere e batteri, o anche semplicemente inalando l’aria e il pulviscolo in essa disperso. E ancora: «La contaminazione, successivamente, potrà essere trasmessa alle persone con cui si ha un contatto stretto. Questa colonizzazione, tuttavia, non dà sempre luogo a un’infezione e può essere del tutto asintomatica. Il passaggio di batteri resistenti agli antibiotici» può avvenire anche attraverso il consumo di alimenti di origine animale, come la carne. Ed è per questo motivo che è importante che nelle cucine vi sia sempre attenzione all’igiene. Servono poche e semplici attenzioni, per esempio un lavaggio accurato dei coltelli usati per il sezionamento dei prodotti, una corretta cottura della carne e una corretta conservazione dei cibi già preparati, per ridurre drasticamente il rischio microbiologico».

Agnoletti, ci sono dei batteri del genere salmonella resistenti agli antibiotici che sono presenti in più specie animali. Questo è preoccupante.

Le ricerche che abbiamo condotto, e che stiamo ancora conducendo all’interno dell’Istituto dove lavoro, evidenziano come alcuni batteri multiresistenti agli antibiotici isolati negli animali – come per esempio Escherichia coli, Acinetobacter baumannii, Pseudomonas aeruginosa, Staphylococcus aureus – siano in realtà diversi rispetto a quelli isolati nell’uomo. Questo non vuol dire, ovviamente, che non sia possibile la trasmissione di batteri resistenti dagli animali all’uomo, ma semplicemente che questa possibilità è stata forse sopravvalutata in passato. Sicuramente questa trasmissione è tanto più facile quanto più stretto è il contatto uomo-animale, come può accadere, per esempio, fra un cane e il suo proprietario o fra un allevatore e i suoi animali. Per tornare alla salmonella è nota la possibilità che l’infezione umana derivi da un consumo di alimenti di origine animale e per questo motivo sono in atto importanti piani di controllo ed eradicazione. Va però tenuto presente che i batteri multiresistenti che creano maggiori preoccupazioni in medicina umana sono altri e, generalmente, non originano dagli animali.

Quasi il 70% degli antibiotici venduti nel nostro Paese è destinato agli allevamenti e l’Italia ha la maglia nera nell’Unione europea per prevalenza di batteri antibiotico resistenti…

Entrambe le osservazioni sono vere. In Italia si concentra il 30% dei decessi umani causati da infezioni sostenute da microrganismi multiresistenti, complessivamente stimati, a livello europeo, in alcune decine di migliaia di casi l’anno. Di queste mortalità, tuttavia, la maggior parte è imputabile a microrganismi non rilevanti in ambito veterinario e resistenti ad antibiotici non utilizzati negli allevamenti a causa del loro elevato costo, come per esempio i carbapenemi. In realtà, anche alla luce dei risultati delle ricerche finora condotte, ritengo che il contributo del mondo animale a queste morti sia limitato. Ricordo che in ambito zootecnico, ove si presta molta attenzione al fattore economico, si usano prevalentemente antibiotici datati, che hanno perso interesse per la terapia umana, quali le tetracicline o i sulfamidici. È poi importante sapere che negli ultimi anni in Italia si è lavorato moltissimo per ridurre l’uso degli antibiotici negli allevamenti. Un’indagine dell’Agenzia europea del farmaco ha rilevato nel 2017 un calo del 42 per cento dei consumi di antibiotici per uso veterinario rispetto al 2010 e da allora il trend di diminuzione non si è arrestato. Nel caso della colistina, antibiotico di fondamentale importanza per la terapia delle infezioni umane da batteri multiresistenti, la riduzione è stata addirittura del 93%. Si tratta di dati importanti che infondono fiducia sul fatto che l’Italia, su questi temi, possa recuperare il ritardo accumulato rispetto ai Paesi del Nord Europa.
C’è chi sostiene che gli antibiotici non sempre vengono utilizzati solo per curare gli animali, ma anche per accrescere velocemente il loro peso. Le risulta?
Non posso concordare con questa affermazione. In passato gli allevamenti di animali da carne hanno utilizzato alcuni antibiotici sfruttando il loro effetto auxinico, ovvero la loro capacità di stimolare l’accrescimento corporeo. La ricerca ha tuttavia evidenziato che questa modalità di utilizzo degli antibiotici determinava l’incremento delle resistenze batteriche anche nell’uomo. A seguito di questa evidenza, già da 15 anni, l’uso degli antibiotici per stimolare l’accrescimento corporeo degli animali è tassativamente vietato in tutta Europa. Purtroppo questa scelta non è stata universalmente condivisa e vi sono numerosi Paesi nel mondo dove il loro utilizzo è ancora consentito, come per esempio gli Stati Uniti, il Canada o il Brasile.

Altro punto è l’inquinamento dell’ambiente attraverso i liquami di animali trattati con antibiotici. Quanto è reale tale preoccupazione?

Ovviamente ogni attività umana o zootecnica impatta sull’ambiente; per esempio sappiamo bene che nell’acqua dei fiumi che attraversano le nostre città è possibile ritrovare residui di ogni tipo di farmaco oltre che di droghe. Lo stesso concetto vale per gli animali. Gli antibiotici somministrati negli allevamenti vengono metabolizzati, ma piccole quantità farmacologicamente attive possono essere eliminate con le urine o con le feci. La maturazione dei liquami nelle vasche di raccolta consente di ridurre questo problema, così come quello dei batteri resistenti agli antibiotici, che, analogamente ai farmaci, ritroviamo nei liquami usati per la fertirrigazione dei campi. Tuttavia, non è ancora ben chiaro ai ricercatori quale sia il reale peso di questo fenomeno nella diffusione della resistenza batterica nell’uomo o negli animali.

Cosa si sta facendo per ridurre l’utilizzo degli antibiotici negli allevamenti?

Si sta facendo molto, anche perché ormai i produttori subiscono un’evidente pressione per limitare l’impiego di antibiotici sia da parte dei consumatori che dalla stessa grande distribuzione che ritira i loro prodotti. Già dall’anno scorso, poi, è entrata in funzione la ricetta elettronica veterinaria che permette di tracciare i consumi dei farmaci veterinari con grande precisione. Inoltre, è stato emanato dal Ministero della Salute il Piano nazionale di contrasto della antimicrobico-resistenza che pone obiettivi di riduzione dei consumi degli antibiotici, sia per i farmaci destinati all’uomo che per quelli veterinari. In pochi anni ho potuto osservare un cambiamento dello scenario che definirei epocale. Ovviamente c’è ancora molto lavoro da fare.