C’è stato un tempo in cui anche nel dibattito italiano i destini del marxismo sembravano andare di pari passo con quelli dello strutturalismo, suggerendo una loro convergenza strategica se non addirittura un’alleanza. Diversamente da quanto accaduto in altri paesi, quel confronto non ha tuttavia prodotto i risultati attesi, e a distanza di tanti anni si direbbe che siano prevalsi soprattutto i dissidi. Eppure, al di là delle molte accuse reciprocamente lanciate dalle rispettive diplomazie intellettuali, come quelle di determinismo storico verso i marxisti e di ideologia del capitale verso gli strutturalisti, i vari tentativi di avvicinamento proposti dai loro esponenti costituiscono uno dei momenti culturali più interessanti degli anni Sessanta.

MERITA DUNQUE molta attenzione il nuovo volume di Claudio e Giandomenico Crapis intitolato Umberto Eco e la politica culturale della sinistra (La nave di Teseo, pp. 272, euro 16), in cui i due autori analizzano la discussione che nel 1963 ha coinvolto il padre della semiologia italiana e alcuni intellettuali gravitanti intorno al Partito comunista italiano. L’occasione era stata offerta dall’uscita di un lungo saggio di Eco, pubblicato in due parti su «Rinascita» dopo un invito di Mario Spinella, su suggerimento di Palmiro Togliatti, e ora inserito all’interno delle pagine di questo recente volume insieme all’articolata e non meno interessante replica di Rossana Rossanda, all’epoca responsabile della politica culturale comunista.

Diciamo subito che dal saggio echiano emerge in particolare la necessità di una revisione del paradigma marxista alla luce degli sviluppi dell’industria culturale, i cui prodotti erano da tempo penetrati in quel mondo popolare che costituiva il blocco sociale del Pci. Questa proposta, come osservano Claudio e Giandomenico Crapis, se da un lato apriva una breccia in quella parte del partito che riconosceva i limiti del proprio modello culturale dovuti alle ascendenze crociane, dall’altro, trovava tuttavia un insuperabile ostacolo nel momento in cui il marxismo, da visione del mondo e dei processi di trasformazione, veniva ridimensionato da Eco a metodo di ricerca da affiancare paritariamente ad altri modelli teorici, in particolare allo strutturalismo.

Un secondo elemento di dissenso riguarda invece le avanguardie. Il saggio di Eco esce infatti poco dopo la sua partecipazione al convegno fondativo del Gruppo 63, di cui poi è stato uno degli intellettuali di riferimento. In questo caso però le posizioni in conflitto concordano nel riconoscere il legame dell’avanguardia con l’universo capitalistico: ma se per i comunisti questo rapporto sterilizza qualsiasi vero moto progressivo, per Eco esso costituisce invece l’occasione per elaborare una rottura all’interno della stessa cultura egemone.

COME RILEVANO giustamente Claudio e Giandomenico Crapis nelle pagine che introducono e accompagnano il testo di Eco, dietro il tono fermo delle parole dei comunisti e in particolare di Rossana Rossanda vi è stata indubbiamente un’apertura che ha agito più di quanto farebbero intendere alcune delle risposte più severe, come ad esempio quella davvero sorprendente di Louis Althusser, il cui marxismo non si era ancora aperto alle ragioni dello strutturalismo. Ma al di là di questo contrasto, il confronto con il Pci ha rappresentato un’importante tappa del percorso intellettuale di Eco.

Sebbene il suo saggio comparso su «Rinascita» non abbia trovato spazio nelle raccolte di quegli anni, oggi appare evidente il suo intento progettuale. Molti dei suoi punti hanno sotterraneamente guidato la riflessione teorica sul segno degli anni Settanta, in cui la prospettiva strutturalista viene da Eco rinnovata anche grazie all’apporto del marxismo, da lui ripreso in una chiave più ampia e problematica di quanto fosse apparso in occasione del dibattito.