La stella di David Bowie ha attraversato cinque decenni della musica rock, reinventando gli stili, precorrendo le mode. Ha assorbito la lezione di maestri come il mimo britannico Lindsay Kemp, capaci di influenzare le sue performance, i video, le copertine dei dischi – rielaborando tutto in uno stile assolutamente personale.

Ma è nella musica che la sua intelligenza creativa si esplicita al meglio. Fiuto, curiosità, non c’è genere che non abbia attraversato nel corso di una carriera iniziata, discograficamente, nel 1967, data di uscita del primo eponimo album. È dal 1969 con Space Oddity – e nonostante il flop commerciale – che la critica comincia a seguirlo con attenzione, seguito da The Man who sold the world. Ma la vera esplosione di Bowie è con The Rise and fall of Ziggy Stardust – nel 1972 – una manciata di brani azzeccatissimi, un tripudio di rock e glam, dove la stella Bowie ottiene finalmente il giusto riconoscimento anche di pubblico, supportato da un tour in cui la figura del cantante e del suo «alter ego» Ziggy Stardust, quasi si confondono.

Bowie non si ferma e cambia pelle, dal beat di Pin Ups, all’r&b di Station to station e Young americans, e che culmina con la fase forse più creativa e sperimentale, quella della cosiddetta trilogia berlinese con Low, Heroes e Lodger incisi fra il 1977 e il 1979, con l’apporto decisivo di Brian Eno.

Gli ottanta – che si aprono con l’affascinante e enigmatico Scary Monsters, lo vedranno più distratto sul fronte musicale, ma con un gigantesco hit – ad oggi il suo album più venduto – Let’s dance (1983) prodotto dalla mente degli Chic, Nile Rodgers.

Nella carriera di Bowie diverse apparizioni cinematografiche, fra queste L’uomo che cadde sotto la terra (1976) diretto da Nicholas Roeg, l’intenso Furyo di Nagisa Oshima (1985), il multicolor musical Absolute beginner di Julien Temple (1986) e il controverso Basquiat di Julian Schnabel (1996) nel quale interpreta il ruolo di Andy Warhol.