Come Sam Cooke e Ray Charles, Aretha ha saputo appropriarsi della tradizione gospel sposandola nel soul e nel pop, evitando cliché troppo legati alla tecnica – che pure conosceva a menadito – lasciandosi andare piuttosto alla ricerca della massima espressività e a una carnale passione che riversa soprattutto nelle performance live. Un talento espresso anche nella sterminata discografia della cantante che tra antologie, album live e studio tocca i sessanta titoli in un arco di tempo che passa da Songs of faith (1956) l’esordio inciso appena sedicenne per la Chess Records al recente (2014) Sings the Great Diva Classics. Eppure, nonostante l’enorme talento e la precoce maturità, gli anni di militanza nei ’60 con la Columbia la vedono ancora incerta sulla strada da intraprendere. È virtuosa nell’omaggio a Dinah Washington appena scomparsa – Unforgettable (1964) frutto di una session arrangiata in chiave soul jazz da Bob Mersey, ma gli eleganti arrangiamenti e l’uso di archi di altre sue incisioni dell’epoca non convinconco appieno.

La consapevolezza arriva con l’ingresso di Aretha nella scuderia dell’Atlantic, un quinquennio d’oro aperto da un album diventato un pezzo di storia del soul I never Loved a Man (The Way I love You), registrato nel 1967 in parte nei celebri Fame Studios di Muscle Shoals dove Aretha trovò subito sintonia con i musicisti messigli a disposizione dal produttore Jerry Wexler. Grazie a quel disco, completato in due settimane, Aretha ottenne il risultato che alla Columbia era sfuggito per cinque anni. Un lavoro spartiacque che segna uno standard qualitativo enorme per gli album che seguiranno, dove spicca un live, Aretha in Paris (1968) con un duetto improvvisato – da mozzare il fiato – con Ray Charles sulle note di Spirit in The Dark.

Sono tutti di questi anni titoli come Think (da Aretha Now, 1968), A Brand new Me (da Young, Gifted & Black, 1972). La voce di Aretha è all’apice, sa essere risoluta ed è specchio di una donna che vuole essere «rispettata e ascoltata», ma sa anche essere «fragile e sensuale». È qui che mette a punto il suo celebre melisma, la capacità di dilatare e scomporre le note, di passare da un registro altissimo a note basse lanciandosi in lancinanti falsetti. C’è spazio anche per un ritorno alle atmosfere del gospel con l’esplosivo Amazing Grace, inciso nel 1972 in una chiesa di Los Angeles e «replicato» nel 1987 in One Lord, One faith, One Baptism dove incontra Mavis Staples e Joe Ligon.

Più dispersiva è la carriera di Aretha post Atlantic, quando firma (1981) per l’Arista di Clive Davis e si converte a un repertorio troppo spesso contaminato dal pop dove pecca di lungimiranza: lavora con gli Chic e si rifiuta di incidere due pezzi come Upside Down e I’m coming Out ritenendoli «non consoni ai suoi standard», ma che diventeranno hit mondiali con Diana Ross. Dopo due dischi interlocutori, ritrova il successo con Jump to It, prodotto da Luther Vandross (1982) e ancor più con Freeway of Love (da Who’s zooming who, 1985) che diventerà il suo maggior successo dai tempi di Respect.

Sempre sul finire degli ’80 arrivano i duetti con gli Eurythics, Sisters are Doing For Themselves, mentre in Aretha (1986) spicca una folgorante versione di Jumpin’ Jack Flash. Keith Richard in persona produsse la canzone suonando affiancato da un altro Stones, Ron Wood. Poi tante collaborazioni di prestigio ma album così così (Through the storm con Arif Mardin e Narada Michael Walden in cabina di regia nel 1989), un duetto poco ispirato con Whitney Houston (It Isn’t, It Wasn’t, It Ain’t Never Gonna Be) e un altro appena passabile con George Michael (I Knew You Were waiting for me).

Il primo segnale del «risveglio» artistico arriva solo nel 1996 con A Rose is Still a Rose, dove è proprio la title track scritta e prodotta dall’allora ventiduenne Lauryn Hill a segnare un disco non perfetto ma sicuramente più consapevole. Per la festa dei suoi settant’anni in un galà all’Helmsey Park Lane Hotel di Manhattan il 25 marzo 2012, annuncia la sua ritrovata sintonia con Clive Davis, con lui progetta un album di standard dedicato alle dive del pop inciso per SonyMusic, Aretha Franklin Sings the Great Diva Classic, pubblicato nel 2014 dove è proprio una hit di una sua dichiaratissima fan, Adele, Rolling in the Deep interpolata con Ain’t No Mountain High Enough, a riconfermarla «queen of soul» ancora in grado di misurarsi con la musica contemporanea azzardando perfino con l’autotune…