In un periodo di conflitti, pandemie, ritorno dei blocchi e invasioni militari, il film di Mikhaël Hers passa attraverso la competizione berlinese con garbo e delicatezza. Si tratta di un’opera di pura glasnost. Su carta, la sinossi suggerisce un melodramma a tinte fosche. La storia è quella d’una donna di circa quarant’anni di nome Elisabeth (Charlotte Gainsbourg) che, lasciata dal marito e provata dall’esperienza di un cancro al seno, deve trovarsi un lavoro, crescere due figli adolescenti e, se possibile, innamorarsi. Sullo schermo il trattamento ne fa una sorta di favola, non priva di lacrime, ma senza negatività. Il solo personaggio potenzialmente conflittuale, il marito di Elisabeth, è sempre solo evocato. Il tono del film è l’equivalente cinematografico della voce calma e baritonale della conduttrice Vanda (Emmanuelle Béart, piuttosto in forma), animatrice dell’emissione notturna Les Passagers de la nuit (da cui il titolo del film). Come nel più classico dei mélo, i personaggi si muovono dentro un quadro storico ben definito. Tutta la vicenda di questa famiglia si svolge negli «anni Mitterand», che in Francia fanno tutt’uno con gli anni ottanta.

L’AGENDA sotterranea del film è proprio il ritratto di quel periodo. L’ultimo in cui la Francia si è divertita ad inventare se stessa. Si tratta, per esempio, degli anni in cui il ministro della cultura Jack Lang riorganizza il cinema d’autore partendo dal modello de L’ultimo metrò di François Truffaut rilanciando, paradosso, una nuova Qualité française. I protagonisti de Les Passagers de la nuit non sono dei cinefili. Come moltissimi francesi di quel periodo riempiono le sale, non per vedere un film o un regista, ma per andare al cinema. Senza sapere chi sia, si siedono davanti ad un Rohmer o un Rivette, e all’uscita ne parlano.
Non è un paese di Bengodi, quello che descrive Hers. Ma quando Elisabeth entra nella Maison de la radio per un appuntamento di lavoro, e sale indisturbata fino allo studio di registrazione, Hers ci restituisce un periodo, recente eppure così distante, in cui non c’erano ancora guardiani ad ogni porta. Si poteva salire su un treno senza biglietto, in un cinema da una porta di servizio, sedersi nel portone d’un caseggiato, senza essere scannerizzati e messi alla porta. Già Benjamin raccontava la privatizzazione dei passages. Ma non a tutto era stata già messa una barriera. Il personaggio della ragazza di nome Talulah (Noée Abitat), che sbarca a Parigi la sera della vittoria della «gauche» con uno zaino e un sacco a pelo per dormire in strada, serve a farci da guida in quest’ultimo spicchio di Parigi aperta. Elisabeth la fa entrare nella propria famiglia. Lei resta qualche giorno e vola via. Riappare quattro anni dopo solo per sparire di nuovo, questa volta per sempre.

ELISABETH LE DICE: «somigli ad un uccellino». In Talulah Hers fa vivere lo spirito di Coluche, dei punk, dell’ultima generazione di flaneurs che Parigi ha accolto. I marginali. Quelli che non contano nulla. Ma che nella della città erano invece essenziali, ché rappresentavano una possibilità di vivere al di là delle norme. Anche per quelli che, come Elisabeth e la sua famiglia, lottano giorno per giorno per non essere esclusi dal modo di vita piccolo borghese, il contatto con questo uccellino è essenziale. È l’anima della città, la sua energia effimera. È così del resto che il regista ce la presenta, a giocare con il tabellone del metrò, spingendo pulsanti che creano piccoli itinerari elettrici sulla mappa della città, come lucciole in una notte di maggio del 1981.