In questo periodo dell’anno di solito il cinema vive uno dei suoi periodi più attesi, discussi e dibattuti, almeno dal punto di vista festivaliero. È proprio verso la fine di maggio che infatti si chiude il festival di Cannes, con i suoi premi, gli inevitabili fischi e le polemiche, i film snobbati, quelli sopravvalutati e quelli che magari passati inosservati, verranno rivalutati negli anni futuri. Ma il 2020 non è un anno come gli altri e nell’attesa di tempi migliori, questa pausa forzata è una buona occasione per andare a scavare nelle vecchie edizioni del festival di Cannes e vedere alcuni film giapponesi che durante quasi un secolo di storia, hanno lasciato il segno in riviera. Sebbene la cinematografia nipponica sia una fra le più ricche di storia, «solo» cinque lungometraggi prodotti nell’arcipelago si sono aggiudicati la Palma d’oro.
Il primo lavoro targato Sol Levante ad aggiudicarsi il premio, anche se non c’era ancora il trofeo a forma di palma e si chiamava Grand Prix, fu La porta dell’inferno (Jigokumon) di Teinosuke Kinugasa nel 1954. Primo film a colori giapponese distribuito all’estero, il lungometraggio del regista che già aveva stupito con il capolavoro del cinema muto Kurutta ippeiji, fece incetta di riconoscimenti: Locarno, New York e anche agli Oscar.

I PRIMI ANNI cinquanta furono il periodo in cui, dopo Rashomon a Venezia nel 1951, l’Occidente si avvicinava, o scopriva a seconda dei punti di vista, la cinematografia dei vari Kurosawa e Mizoguchi. È proprio Kurosawa ad aggiudicarsi, solamente nel 1980 però, la prima Palma d’Oro per il Giappone con Kagemusha, film della rinascita per l’autore nipponico che durante gli anni settanta aveva attraversato un decennio tormentato, un tentato suicidio prima e varie vicissitudini produttive poi, segno anche di un mondo, quello del cinema, che non era più quello del periodo d’oro.
Gli anni ottanta, spesso vituperati, e forse anche a ragione, sono stati in Giappone un periodo che non ha forse prodotto quel cambio di generazione auspicato, ma che ha comunque visto l’uscita di un numero impressionante di opere interessanti, quando non capolavori. Shohei Imamura si aggiudica la Palma d’Oro nel 1983 con La ballata di Narayama e una seconda volta nel 1997 con L’anguilla, una sorta di celebrazione a posteriori della ventata di novità che Imamura e gli altri giovani registi giapponesi, Oshima, Shinoda, Yoshida, portarono dagli anni sessanta in poi. Ultimo lavoro di un regista giapponese a vincere a Cannes è stato Hirokazu Kore’eda con Un affare di famiglia, due anni or sono, un cineasta che Cannes ha spesso corteggiato ed invitato, diventando quasi un habitué in riviera.

PRESENZA ASSIDUA nella prima metà degli anni sessanta a Cannes è stato anche il cinema di Masaki Kobayashi che con Harakiri (Seppuku) nel 1963 e Kwaidan due anni più tardi, portò a casa il Premio della Giuria. Meritatamente perchè Harakiri rimane ancora oggi uno dei film in costume più potenti mai usciti dall’arcipelago, tanto nella messa in scena, fotografia e gigantesca performance di Tatsuya Nakadai, quanto per il modo in cui decostruisce il mito del samurai e l’aura sacrale con cui veniva spesso rappresentato sul grande schermo. Se è vero che, specialmente in decenni recenti, Venezia è stata più attenta e sensibile alle cinematografie asiatiche, e quindi anche a quella Giapponese, Cannes resta comunque un palcoscenico privilegiato a livello mondiale. Talvolta sapendo anche «scoprire» o portare al grande pubblico, nomi relativamente nuovi, il già citato Kore’eda, Naomi Kawase, ma anche nomi a tutt’oggi meno conosciuti come ad esempio Kohei Oguri, che sulla Croisette vinse il Grand Prix Speciale della Giuria nel 1990 con L’aculeo della morte.

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