La «Safe Zone» finora funziona, il protocollo di sicurezza messo in campo dalla Biennale per la tutela comune è accuratissimo e dettagliato, appena però si varcano in uscita i «check-point» – a quelli sanitari si aggiungono i preesistenti controlli anti-terrorismo – le cose cambiano. Prendiamo i vaporetti: l’obbligo di distanziamento non esiste, si viaggia stretti stretti e non è che vista la conformazione della laguna è possibile pensare a mezzi alternativi – ci sono i taxi, certo, pochi e a cifre proibitive. I veneziani della città o del Lido oscillano tra negazionismo e mercantilismo che finiscono per diventare un’unica cosa, perché tocca guadagnare (i prezzi sono almeno raddoppiati), gli alberghi a Venezia sono pieni «soltanto» al 70% perciò l’uso intensivo del territorio va alimentato a ogni costo. Se glielo fai notare ti guardano male, un’ esagerazione o magari è propaganda? Del resto: proprio il sindaco (centrodestra) di Venezia, Brugnaro, e il governatore leghista del Veneto Zaia sono stati i primi a spingere per fare la Mostra però a organizzare il territorio, la città, i trasporti non ci hanno proprio pensato. Evidentemente le promesse del governatore in campagna elettorale che lo dà vincente riguardano altro.

IERI è stata la giornata del primo dei quattro film italiani in concorso, due registe, Susanna Nicchiareli (Miss Marx che vedremo oggi) e Emma Dante (Le sorelle Macaluso) e due registi, Gianfranco Rosi (Notturno) e Claudio Noce. A quest’ultimo è toccata la partenza con Padrenostro (nelle sale il 24 settembre), film di cui il titolo esplicita anche se in parte il contenuto. «Padrenostro», il Padre di famiglia e quello che sta nei cieli, figura a cui tutto rimanda, imperscrutabile, pilastro di ammirazione e timore, motore di quel patriarcato che sempre governa il mondo.
Il «Padrenostro» di Noce è il padre del regista, Alfonso Noce, a cui si ispira la storia «vera» come specificato all’inizio, vicequestore a Roma del nucleo regionale dell’antiterrorismo, nel 1976 viene ferito in un attentato rivendicato dai Nap, i Nuclei armati proletari, uno dei primissimi gruppi armati nato quasi interamente nelle carceri. Nella sparatoria vengono uccisi un agente della scorta, Prisco Palumbo, e uno degli aggressori, Martino Zicchitella. Noce, che è nato nel 1974 allora ha due anni, troppo piccolo per ricordare in modo diretto ma destinato a crescere dentro a una «memoria» privata e collettiva che questa storia, gli anni di bombe e di sparatorie fa tuttora fatica a guardare in modo compiuto, da ogni aspetto, senza letture posticce o «postume» per tentare di ricostruirne le responsabilità. Restano le porte chiuse dei genitori che vogliono proteggere i figli e per questo non gli dicono nulla, mentre i ragazzini non sanno perché l’insegnante a scuola – privata, di suore – dice che il padre è un eroe mentre qualcuno dei compagni di classe lo chiama «infame». E non capiscono neppure le lacrime della madre, conoscono solo l’angoscia, la paura, la solitudine che li avvolge all’improvviso.

LO SGUARDO da cui filtra quell’Italia e quell’epoca appartiene a Valerio (Mattia Garaci) un bambino di dieci anni, a lui il regista affida la distanza narrativa dei suoi ricordi e degli altri suoi fratelli che come ha raccontato negli incontri stampa hanno partecipato a rimettere insieme i diversi frammenti. Biondissimo in una famiglia di bruni – emigrazione calabrese – adora il padre anche se lo vede poco (è Pierfrancesco Favino), il pallone pure se gioca male, e la Lazio – sarà per questo che a scuola è poco popolare? Roma comincia e finisce nella strada dove abita, in lontananza si vede la cupola di San Pietro. La vita è tutta lì, tra le pareti domestiche di carta da parati piccolo borghese, cucina di formica, la ragazza che aiuta in casa, la madre sempre sorridente e muta fino all’ebetismo (Barbara Ronchi), la sorellina più piccola e l’amico immaginario che vive sul terrazzo e a cui porta la carne che non vuole mangiare.Ma soprattutto lui, il Padre, «Padrenostro« a cui vuole piacere, eroe, mito, mondo.

POI UNA MATTINA succede qualcosa, Valerio vede il padre cadere sotto le pallottole, e un uomo sull’asfalto pieno di sangue. Che significa, cosa è successo? Le armi urlano, la madre piange. Poi sono frasi sussurrate, la tv nel salotto buono che non si può guardare, i giorni rinchiusi a casa, il respiro che si mozza. Finché Valerio non incontra Christian, è più grande di lui, fuma, col pallone è un mago e lo porta in giro per la città dove non è mai stato, in strada è pieno di ragazzi coi capelli ricci come quello che ha visto morire. Ma è esiste Christian o è una nuova variazione del vecchio amico immaginario?

I FIGLI. Non quelli di Amelio – che denunciano i padri (Colpire al cuore) e nemmeno quelli di Bertolucci che invece li obbligano a interrogarsi pure se non capiranno mai nulla (La tragedia di un uomo ridicolo). Qui siamo più dalle parti di Giordana (Romanzo di una strage, in cui tra l’altro uno dei protagonisti era proprio Favino) quando fa incontrare in un agghiacciante iperspazio Pinelli e Calabresi; loro sono i padri, la generazione che era in quel tempo, che lo «agiva», Valerio e Christian invece sono i figli, i ragazzini che i padri li hanno subiti o troppo esaltati o forse mai visti come si usava (si usa?) perché indaffarati. Ma Christian non esiste. O sì? E i ragazzini non si ribellano e nemmeno fanno domande. Siamo nella testa di Valerio, nei suoi occhi che proiettano la storia, nel groviglio delle sue emozioni o in una terza persona? – ma certo suggerire che ogni ragazzo coi capelli lunghi e ragazza con l’abito a fiori hippy è un possibile terrorista nemmeno il teorema Calogero è arrivato a tanto.

COSÌ SI FINISCE tra fantasmi, gelosie, confessioni, il presente dei personaggi bambini cresciuti e rimasti lì – con eco veltroniana (alla Scoperta dell’alba), canzoni. Ma Buonanotte fiorellino e la Pfm (Impressioni di settembre) sparati qua e là come il vintage del décor non bastano a fare un’epoca e ancor meno a fondare la consapevolezza (e il sentimento) di una narrazione.