Special One o Trucco e Parrucco (il mister della squadra campione d’Italia), Sir Alex o Carlo Martello (ovvio Ancelotti), l’Imperatore (Terim) o Mancio, ormai gli allenatori sono strapagate superstar, quasi allo stesso livello dei divi del pallone. Ma un tempo non era così, in Spagna negli anni sessanta contavano talmente poco che li chiamavano maleteros, portavaligie. Passato mezzo secolo da quel fatidico Quelli che… Milan Inter ’63, una distanza siderale per l’universo calcistico, cambiato in tutto sia dentro il campo (skycam e telecamere che viaggiano su fili sospesi, pubblicità virtuali su prato e tabelloni, marchi dappertutto, magliette e mutande sponsorizzate come i parastinchi, i calzettoni e il pallone) che fuori dal rettangolo verde (arbitri di porta, 24 telecamere per match che perlustrano anche l’intimo prepartita e l’accaldato dopo).

E il linguaggio poi …top player per cannonieri o piedi buoni, ripartenza per contropiede, occupare gli spazi per tattica difensivista.
La tv è stata sicuramente la protagonista assoluta del calcio di questi ultimi decenni, non più gioco e meno che mai sport, certamente grande fenomeno mediatico, interclassista e normalizzato. Allora nel fantastico 1963 le partite si vedevano integralmente solo allo stadio (salvo un tempo registrato la domenica su Raiuno alle 19 e i servizi di 180 secondi per ogni partita con le azioni salienti alla Domenica Sportiva).

Altri mattatori salirono alla ribalta in quell’anno (e nelle stagioni successive), proprio il Mago e il Paròn, Helenio Herrera e Nereo Rocco, gli allenatori delle due squadre meneghine , la città dello scudetto (Milan ’62, Inter’63 e perderà lo spareggio ’64 col Bologna, Inter ’65 e Inter ‘66), della Coppa dei Campioni (Milan ’63 e ‘69, Inter ’64 e ‘65) e della Coppa Intercontinentale (Inter ’64 e ‘65, Milan ’69). Insomma la capitale del calcio europeo, forse mondiale, lo scenario dove si muovevano due personaggi assai diversi ma complementari, Accaccone e il Toro triestin (come li chiamava Brera) con una padronanza assoluta del mestiere, in grado di accendere le luci della ribalta per sé e per il loro ruolo, da invasato sbruffone l’uno (che lanciava Mazzola) da bonario padre di famiglia l’altro (che puntava su Rivera).

In qualche modo gli antesignani di due modi diversi d’intendere la panchina (e il mestiere del campo), HH argentino di nascita, franco-spagnolo per cultura, poliglotta, frenetico, tutto proclami e dichiarazioni (scritte pure sugli armadietti) con intensità di gioco sintetizzata dal suo grido inimitabile tacalabala e Nereo, il suddito di Francesco Giuseppe, il figlio di macellaio, l’uomo di spogliatoio che addestrava i suoi manzi (sin dai tempi del trio difensivo patavino Blason, Azzini, Scagnellato, poi Rosato, Maldini, Trapattoni) tra confessioni e battute in dialetto.

Se entrambi poterono avvalersi di una dovizia di mezzi, era per l’affermarsi di criteri manageriali sia tra i nerazzurri di Angelo Moratti (giocatori migliori, premi favolosi, ritiri e disciplina) che tra i rossoneri di Rizzoli dove il carattere schietto di Rocco sembrava un tantinello provinciale per le platee internazionali. Nella retina ci sono due gol che marcano la differenza, quello d’astuzia di Peirò, l’attaccante che giocava solo in Coppa, contro il Liverpool togliendo la sfera al portiere che palleggiava ignaro, un colpo d’audacia che porterà poi l’Inter a eliminare i Reds e vincere il trofeo e quello di Prati, l’ultimo nella tripletta contro l’Ajax, nella finale vinta del 1969, con Rivera che scarta un avversario dopo l’altro e non riesce a chiudere ma viene portato sul fondo e crossa per la testa di Pierino che sta lì dove doveva stare e mette dentro. Proprio lui, l’ultima punta vera del calcio italiano, da debuttante si era presentato in ritiro con una camicia a fiori, scatenando l’inevitabile battuta mi gavevo bisogno de un centravanti,no de un cantante.