Nel 1958, a Milano, mentre si completavano gli ultimi dettagli per l’inaugurazione della neonata Torre Velasca per opera dei BBPR, Billie Holiday apriva la grande stagione della musica con un concerto al teatro Smeraldo. A questo sarebbero seguiti altri concerti di tutti i grandi del Jazz, da Duke Ellington a Thelonious Monk. Milano aveva così cominciato, già alla fine degli anni cinquanta, a cercare ed ospitare musica. Non ha sicuramente sbagliato Stefano Galli, curatore della mostra «Milano Anni ’60», quando nella sua presentazione a palazzo Morando ha chiamato quel decennio «esagerato». Sì, perché l’entusiasmo pareva davvero essere incontenibile, e sembrava che il fiume della creatività e della voglia di costruire idee tracimasse oltre quello che, solo pochi anni prima, sarebbe sembrato possibile.
E allora, finalmente, eccola qui Milano, che si stava lentamente e finalmente ripulendo da tutta la polvere e da tutte le macerie dolorose di una guerra mondiale terminata da poco. Mentre i Beatles sarebbero arrivati nel 1965 al Vigorelli e i Rolling Stones al Palalido nel 1967, Milano si preparava a suggellare, in quegli anni davvero «esagerati», il proprio ruolo di città nuova e moderna, con le porte aperte e pronta ad accogliere musicisti pop e rock che arrivavano sia da oltre manica che da oltre oceano. Grande fermento era ovunque.

Veniva così realizzata la Linea 1, la linea Rossa della metropolitana – per opera di Franca Helg e Franco Albini -, con una grafica di segnalazione e orientamento di Bob Noorda particolarmente chiara e pulita. Sulla copertina del catalogo della mostra compare infatti la foto della stazione Duomo della metropolitana, con gente che aspetta il treno e un vigile in divisa bianca che si appoggia autorevolmente rilassato al corrimano delle scale.

Queste immagine rappresentava il modo vagamente orgoglioso e soddisfatto di raccontare l’efficienza e la modernità di questa città, che aveva la metropolitana e che si era lanciata con estrema fiducia nel futuro sorridente.

E veniva costruita anche l’autostrada A1, l’autostrada del Sole, che avrebbe sicuramente velocizzato i trasporti e soprattutto messo direttamente in comunicazione il nord con il sud della penisola. La prima pietra era stata posata il 19 maggio 1956 e, già solo nel dicembre del 1958, il primo tratto funzionante avrebbe collegato Milano a Piacenza. Fedele Toscani avrebbe immortalato la posa del cippo inaugurale dell’Autostrada del Sole, con elencate le principali città che avrebbe toccato: Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli.

E quindi, poi, sarebbero arrivati gli architetti che il futuro, quello vero e concreto, avrebbero dovuto progettarlo e costruirlo. I BPPR si erano presentati quasi in anticipo, nel ’58, con la Torre Velasca; Giò Ponti avrebbe invece firmato il ‘Pirellone’, costruito tra il ’56 a il ’61.

Ci si era poi concentrati anche nell’architettura per tutti, quella che aveva dato vita a molti quartieri di periferici, come il Gallaratese, Quarto Oggiaro e anche Comasina che, iniziata nel 1953 e completato nel 1960 fu, con i suoi 83 palazzi, il più importante intervento edilizio nell’Italia di quegli anni. Gli architetti del Politecnico si sarebbero così presto trasformati in designer, quelli che, con una semplice oggetto, anche con una semplice lampada o una semplice sedia, avrebbero conquistato e trasformato il gusto estetico del pubblico. Vico Magistretti, che in mostra troviamo attraverso la sua lampada da comodino Eclisse del 1965 per Artemide, ricordava, leggiamo sul catalogo, come «dal ’60, dall’inizio, è cominciata un tipo di relazione in cui le due parti della relazione hanno dato tutto quello che potevano attraverso una collaborazione, fatto assolutamente unico al mondo, una collaborazione veramente di lavoro. Una collaborazione che voleva dire fare insieme il lavoro». Un incontro sempre proficuo in cui vincevano, lavorando insieme, sia progettista che azienda. E insieme a Magistretti, ci sarebbero stati tanti altri grandi maestri, tra cui Bruno Munari, Marco Zanuso, Enzo Mari, i fratelli Castiglioni.
E infatti, fin da metà degli anni 50, era nato il Compasso d’Oro per il Design, la Triennale si riconfermava polo espositivo e di confronto per nuovi progetti e, nel 1961, dopo una visita alla fiera di Colonia di alcuni imprenditori, si sarebbe scelto di dare vita al primo Salone del Mobile che oggi, a quasi sessant’anni di vita, riesce ad essere un appuntamento mondiale che raccogliere otto milioni di visitatori e 2400 espositori, di cui un terzo stranieri.

In pochi anni, in sempre meno anni, tutti sarebbero riusciti a possedere un modello di vita sempre più comoda e sempre meno faticosa. Proprio Luciano Bianciardi, in La Vita Agra, raccontava in modo tristemente reale come la vita si stava trasformando. «Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina da bagno, l’asciuga capelli, il bidet e l’acqua calda».

Contemporaneamente, con la grande e inarrestabile immigrazione delle popolazioni provenienti dal Sud verso il Nord (Milano e Torino principalmente), si creano le nuove differenze, non tra autoctoni e forestieri, ma tra ricchi e poveri. Sì, la differenza era diventata fondamentalmente quella del portafoglio e, come ha scritto Gianfranco Perillo in Lavoro Potere a Milano 1953-1962, (Feltrinelli, Milano 1992), «Quando uno a Milano ha trovato un buon posto di lavoro, si trova bene: è come se fosse sempre stato qui».

L’automobile diventa il simbolo degli anni ’60, amata come un decennio prima era stato il motorino. Eh già, ce lo ha appena ricordato Bianciardi, che di automobili ne avremmo poi avute due per famiglia. E di fatto, questo decennio colorato avrebbe visto anche il chimico Giulio Natta, nel 1963, vincere il premio Nobel per la creazione del polipropilene. Proprio quel Moplen che avrebbe affascinato e stregato un’intera generazione di architetti e designer tra i più famosi e invidiati al mondo.

Data la forte richiesta di manodopera, nel 1961 era stata finalmente abolita la norma fascista che conteneva e controllava l’immigrazione interna e, da molti studi, si è rilevato che Milano, più di Torino, era pronta ad accogliere e integrare i nuovi arrivati. Una ragione, ci ricorda Valentino Scrima nella parte del catalogo intitolata «Istantanee del Boom», era stata una diversa mentalità degli abitati, e anche la maggiore flessibilità del sistema industriale. Tutto succedeva velocemente, si sarebbero aperte sale dove si poteva vedere la televisione insieme, poi teatri, cabaret, si sarebbe aperto il «mitico» Derby, dove Jannacci e Gaber cantavano e suonavano con Cochi e Renato. Erano tutti davvero entusiasti di quell’inizio di benessere «esagerato», che avrebbe permesso a tutti di avere una Radio Brionvega Cubo di Richard Sapper e Marco Zanuso, e poi, finalmente, magari con un po’ di pazienza, anche un’automobile.

Perché sì, eravamo ormai sulla strada giusta.
E poi quel botto, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, che avrebbe lasciato Milano senza voce. Ci furono solo lutto e silenzio in tutta la città, immersa nel buio attonito di pizza Duomo per i funerale delle 14 vittime; 14 bare accompagnate da una Milano con lo sguardo dolente che adesso, davvero, si era fermata.