La ripresa di interesse per il pensiero di Marx non si è fermata con la fine del 2018, anno nel quale si è festeggiato il duecentesimo anniversario della nascita del filosofo di Treviri. Anche il 2019 ci ha portato convegni e libri che hanno illuminato, da vari punti di vista, il significato e l’attualità del pensiero dell’autore del Capitale.
Tra i testi usciti di recente quello di Federico Chicchi, pubblicato da Feltrinelli (Karl Marx, pp. 170, euro 14) in una collana diretta da Massimo Recalcati, si segnala certamente per originalità: l’intento dell’autore infatti è, tra le altre cose, anche quello di far dialogare Marx e Lacan. Ma non spaventatevi! Nel testo non c’è nulla dell’oscurità del grande psicoanalista francese. Anzi, esso è chiaro e leggibile come si addice a una collana che punta a raggiungere un pubblico vasto.

MA VENIAMO AL TEMA: semplificando un po’ si potrebbe dire che l’interpretazione di Marx che Chicchi propone mette al centro la questione del feticismo. Ciò ha varie implicazioni: la prima è quella di una lettura fortemente continuista del pensiero marxiano. Sinteticamente la si potrebbe riassumere così: il luogo da cui muove la riflessione dell’autore del Manifesto è la critica feuerbachiana dell’alienazione religiosa; il giovane Marx riporta alla dimensione sociale questo concetto di alienazione e lo studia nei suoi diversi aspetti: l’alienazione del lavoratore, l’alienazione politica nella democratica rappresentativa, e soprattutto l’alienazione del denaro, che sottrae agli uomini le loro relazioni con gli altri e con gli oggetti e le consegna al dominio di una cosa, il denaro appunto.
Nel Capitale, cioè nel punto d’arrivo (seppur provvisorio) del percorso marxiano, la critica dell’alienazione non viene abbandonata, ma ripensata e approfondita: nel meccanismo della produzione capitalistica, vista quasi come il movimento autonomo del valore che si autovalorizza, si realizza alla perfezione l’alienazione intesa come (ricordiamoci il Feuerbach critico della religione) sottomissione degli uomini a potenze che essi stessi hanno creato ma che si sono sottratte al loro controllo e che essi non sanno più di aver formato. In questa prospettiva di lettura, che valorizza molto sia il Sesto Capitolo inedito del Capitale, sia l’interpretazione che ne dette a suo tempo Claudio Napoleoni, è ovvio che il tema del feticismo assuma una sua centralità. Il filo che lega l’alienazione di cui parla il giovane Marx col «feticismo delle merci» di cui tratta il Capitale non può essere spezzato.

MA IL PUNTO da sottolineare è che il feticismo di Marx, guardato con lenti lacaniane, non è uno ma due. A un primo livello di lettura il feticismo è quello che in Marx sta scritto esplicitamente, e cioè che nella società dove tutto passa per lo scambio di merci questo modo di relazione appare agli individui come qualcosa di ovvio e di naturale, e non per quello che esso è veramente: cioè una forma sociale specifica del rapporto interumano, che non è sempre esistita e che non è detto debba esistere per sempre. I beni d’uso non hanno naturalmente forma di merce; questa è piuttosto la visione feticistica che Marx si incarica di smontare.

VI È ANCHE UN’ALTRA dimensione del feticismo, che Chicchi mette in risalto ragionando, per così dire, con Marx e oltre Marx. Ed è il fatto che, lo dico con parole mie, nelle merci il soggetto che abita la società capitalistica trova una possibilità di riempimento della sua costitutiva mancanza; trova una promessa di godimento che, proprio perché non viene in realtà mai soddisfatta, cattura e affascina l’individuo imprigionandolo in un processo senza fine.
Qui Chicchi fa riferimento alle tesi di Recalcati: «Il discorso capitalista sul piano del soggetto comporta innanzitutto un effetto di falsa padronanza: offre cioè l’illusione che il soggetto si possa riempire attraverso il consumo ripetuto dell’oggetto di godimento».
In questa prospettiva, Marx viene utilizzato per sviluppare un’analisi che certamente va oltre la lettera del suo discorso, ma che apre a feconde indagini sui panorami della contemporaneità.
Una diversa prospettiva di attualizzazione di Marx la troviamo in un altro testo recente, un piccolo libro dedicato da Lelio La Porta al pensatore di Treviri, che reca il titolo: Karl Marx: riccio o volpe? (Editori Riuniti, pp. 80, euro 10). Il riferimento zoologico è presto chiarito. Esso deriva da un frammento del lirico greco Archiloco, che suona: «Molte cose conosce la volpe; il riccio una sola ma importante».

A QUESTI CURIOSI VERSI del poeta classico si rifà uno dei massimi teorici del liberalismo novecentesco, Isaiah Belin, per sostenere che i grandi scrittori e pensatori si possono dividere secondo l’appartenenza a una di queste due specie: le volpi sono quelli che «perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori», e che talvolta sono sensibili, come Montaigne, a inclinazioni scettiche. Le volpi piacciono a Berlin perché praticano il pluralismo dei valori e il rifiuto di ricette univoche. I ricci invece sono quelli che «riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema più o meno coerente o articolato», guidato da un fermo e unico principio ispiratore.
Tra i ricci Berlin annovera Dante, Platone, Hegel. Anche Marx, secondo La Porta, appartiene a questa categoria, anche se Berlin non lo rileva. Ma nel suo pensiero da riccio, cioè fortemente guidato da una visione unitaria, persino univoca, Marx ha però il pregio di sottolineare un punto che resta indigesto ai liberali come Berlin; e cioè che la libertà non è tale se non è accompagnata dalle condizioni sociali ed economiche che costituiscono la base per il suo esercizio effettivo.