Onnipresenti e invisibili gli animali sono – dice Massimo Filippi – il grande rimosso della nostra società. Rimasti ai margini di quelle che non a caso si dicono «scienze umane», essi rappresentano una mera appendice nei grandi capitoli della morale e della politica occidentali. Negli ultimi anni si è riscoperto invece nella questione animale un «classico inconsapevole», topos tra i più ricorrenti e sottovalutati nella letteratura e nella filosofia occidentali, e argomento di grande attualità e vivo dibattito. L’invisibilità e l’indicibilità degli animali cominciano a diradarsi?
Nel suo nuovo libro, Questioni di specie (Elèuthera, pp. 117, euro 13), Massimo Filippi fa il punto di queste due storie e della loro grande disparità: la storia lunghissima dell’oppressione e dell’occultamento degli animali (nella loro trasformazione in carne) e quella brevissima del movimento animalista.

STORIE DI POTERE e resistenza. Quelli di cui si occupa questo libro sono quindi problemi tutti politici: il potere esercitato da una categoria di soggetti a scapito di un’altra, la naturalizzazione di un rapporto di assoggettamento che si auto-presenta come inevitabile, la storia delle trasformazioni economiche e del loro impatto sulla vita degli animali, e infine il costituirsi di una coscienza critica della smisurata ingiustizia sociale che si annida in quelle intercapedini della nostra società in cui releghiamo simbolicamente e materialmente gli animali non umani.
Onnipresenti e invisibili, gli animali affollano il nostro immaginario attraverso fiabe e metafore, e sono il costante termine di paragone attraverso il quale l’Uomo ha cercato di affermare la sua identità. Ma la loro presenza è tutt’altro che meramente immateriale: gli animali, prede e compagni di vita, furono e continuano a essere «il primo cerchio intorno all’uomo», come diceva John Berger. Oggi gli animali sembrano sempre più scomparsi dalla nostra vita quotidiana quasi del tutto deruralizzata (anche fuori dalle città se ne incontrano pochi, perché la ménagerie rurale non ha più stanza nella fattoria, ma nella fabbrica dell’allevamento industriale).

SE INCONTRIAMO qualche animale non umano nella nostra giornata si tratta dunque perlopiù degli animali sinantropi che popolano il mondo urbano e industrializzato (i pet, e i formidabili «parassiti urbani» che sperimentano sinergie sempre nuove con un ambiente in continua trasformazione: ratti, piccioni, insetti…). Più raramente può capitarci d’incontrare gli – oramai esotici e già quasi mitici – animali selvatici, relegati nelle riserve naturali che si restringono giorno dopo giorno.
Ma la massa più grande di animali resta invisibile, nascosta ai nostri occhi nel suo palesarsi sotto forma di carne. È la massa innumerevole di animali che ogni giorno nascono e vengono rinchiusi in una gabbia o in un capannone, che trascorrono ogni attimo della loro esistenza in stato di schiavitù, e che quotidianamente vengono uccisi, in un’angoscia e in un dolore che si rinnovano giorno per giorno. Perché, da fuori, la vita e la morte (soprattutto quando sono serializzate e standardizzate come quelle degli animali «da reddito») finiscono per sembrare un fenomeno di massa; mentre da dentro ciascuno ne porta intero il carico.

Gli animali sono quindi «contemporaneamente fuori (come corpi che non contano) e dentro (come forza lavoro o beni di consumo)» la società umana: quella stessa società che «respinge il Migrante come Clandestino e se ne appropria come Badante», estromette l’Animale come Bestia e lo interna come Animale-da-Reddito.
Nelle sue pagine ultra concentrate , il libro di Filippi si avvale delle più varie risorse della filosofia politica, come svela la breve ma spaziosa bibliografia finale. Attraverso la rilettura dei classici della filosofia critica (Adorno, Foucault, Deleuze, Derrida) e dei suoi interpreti contemporanei (Butler, Agamben, Esposito, Hardt, Negri, Rancière) questo piccolo volume rappresenta un assaggio della portata internazionale e intersezionale che vanta oggi il dibattito sulla questione animale, in primis proprio grazie al lavoro di Filippi. Oltre che «un altro animale» come recitano le indicazioni biografiche in terza di copertina, Massimo Filippi è infatti una delle figure chiave del pensiero antispecista, in Italia e non solo.

DA OLTRE DIECI ANNI, nell’ambito della rivista di critica antispecista Liberazioni e di altri progetti editoriali, porta avanti un lavoro di tessitura fatto di interviste (come quelle recenti a Micheal Hardt e a Judith Butler), collaborazioni, traduzioni, recensioni di tutti quei materiali che permettono di pensare, in analogia con altre forme di sfruttamento e altre rivendicazioni politiche, la lotta di liberazione animale come realtà politica.

PIÙ CHE DEL PRONTUARIO per animalisti o della dissertazione teoretica, Questioni di specie ha quindi i toni dell’ostinata protesta contro la banalizzazione delle rivendicazioni animaliste, operata da fuori per screditarne la serietà e da dentro per guadagnare consenso a buon mercato. L’animalismo sta vivendo una fase di accelerazione e crescita proprio in coincidenza con la crisi culturale e politica di questi anni; e questo, dice Filippi, non aiuta. La riappropriazione di istanze gauchiste da parte dell’estrema destra è un fenomeno che non riguarda solo l’animalismo: vi si è assistito con la critica alla globalizzazione, il diritto alla casa e l’ecologia, come dimostra l’attività di gruppi quali CasaPound e La Foresta che Avanza. Questi processi sono noti e non devono confondere chi si creda costretto a decidere se stare dalla parte degli animali o degli oppressi. Ancor più frequente è la riappropriazione delle istanze animaliste da parte del sistema economico, che comincia di gran carriera a sfornare panini vegani da McDonald e latte vegetale Granarolo.

ALLO STESSO LIVELLO di «commercializzazione» dell’animalismo, Berlusconi e Brambilla fondano Partiti e scrivono Manifesti Animalisti che, osserva tristemente Filippi, «tutto sono tranne che il tentativo di definire programmi politici di cambiamento» e rassomigliano al massimo a manifesti pubblicitari volti a irretire «una nicchia nell’ambito di un mercato culturale». Le ultime pagine del libro descrivono il complesso gioco di strategie di occultamento, normalizzazione e stigmatizzazione dispiegato contro gli animali e l’animalismo: in questo campo di forze si giocano oggi le sfide dell’antispecismo politico. Benché al centro di processi economici globali, benché vittime di un’oppressione sistematica che ne governa la vita dalla nascita alla morte, continuiamo a considerare gli animali come gli abitanti di un regno naturale che non ha niente a che vedere con la nostra società e la nostra politica. Ma se questa non è politica, a cosa serve dunque questa cosa, la politica, che dovrebbe aiutarci a stare al passo con una società che è «già e comunque transpecifica»?