La filosofia con cui Eni ha presentato il Piano industriale 2021-2024 è «acceleriamo la trasformazione». Eppure, di fronte alla crisi climatica e all’evidenza secondo cui per contenere il riscaldamento globale bisogna lasciare sotto terra le risorse fossili, l’azienda controllata da Cassa depositi e prestiti e ministero dell’Economia e delle Finanze (detengono il 30,3% delle azioni), pianifica una crescita della produzione «media di circa 4% all’anno nell’arco del piano» e di garantirsi attraverso le attività di esplorazione «2 miliardi di barili di olio equivalente (boe) di nuove risorse». È questo il contesto in cui un gruppo di organizzazioni ecologiste, movimenti e gruppi ambientalisti, supportati dai Verdi/Ale e da Europa Verde, hanno presentato un’istanza contro l’impresa di fronte al Punto di contatto nazionale dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Un atto formale che denuncia l’inadeguatezza del piano industriale della oil company rispetto agli impegni internazionali contro l’emergenza climatica.

Tra i rilievi sollevati ci sono l’insufficiente taglio delle emissioni previsto nei prossimi anni, la mancanza di una valutazione di impatto climatico delle attività d’impresa, l’assenza di informazioni trasparenti e adeguate e la mancata elaborazione di un piano di prevenzione e mitigazione dei rischi, come invece previsto dalle Linee guida dell’Ocse per le multinazionali. Documento che fissa una serie di principi, ispirati alle norme internazionali, orientate a promuovere nelle imprese condotte responsabili dal punto di vista sociale, ambientale e della tutela dei diritti umani. Tra essi appaiono anche obblighi di trasparenza e di adozione di policy d’azienda che tengano conto delle conoscenze scientifiche attuali.

I promotori sono, tra gli altri, Rete Legalità per il clima, A Sud, Fridays for Future, Extinction Rebellion Milano, Europa Verde, Greens/Ale al Parlamento Europeo. «Parliamo di greENIwashing perché il greenwashing sembra diventato per Eni un marchio di fabbrica» afferma Marica Di Pierri, portavoce di A Sud. «Per quanto si sforzi di raccontarsi come attenta all’ambiente, Eni resta saldamente il primo emettitore italiano di gas serra ed è circa al 30° posto a livello globale». Secondo Di Pierri, lo Stato (primo azionista) dovrebbe orientare davvero alla decarbonizzazione il piano di Eni e non, viceversa, lasciarle condizionare le politiche energetiche nazionali. Tra i promotori anche il movimento Friday for Future: «È palese l’impossibilità del rispetto degli Accordi di Parigi con un piano che prevede un incremento del 4% annuo della quantità di oil&gas estratti».
Adesso il Punto di contatto nazionale dell’Ocse deve valutare l’istanza e a dichiararne l’ammissibilità. Ha 30 giorni di tempo. A elaborare l’istanza la rete di giuristi Legalità per il clima, che a luglio aveva inviato a Eni una prima diffida. Eni, che ha dichiarato di volersi impegnare a rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi firmando il Paris Pledge for Action, è inadempiente. L’avvio della procedura di fronte all’Ocse mira ad aprire una discussione, ampia, trasparente e collaborativa. «Nel caso in cui Eni decidesse di non aderire alla procedura la partita, oltre a tornare nel campo della denuncia pubblica e del campaigning, potrebbe spostarsi anche sul piano giudiziario» spiegano i promotori.

La storica vittoria contro Shell in Olanda, condannata nel 2021 a ridurre le emissioni del 45% entro il 2030, ha aperto una strada verso il tardivo ma doveroso riconoscimento delle responsabilità climatiche del settore privato.