Per chiunque voglia fare musica, la scelta del nome con cui presentarsi al pubblico è un momento particolarmente delicato. Il moniker, come si usa dire nei paesi anglofoni, deve essere semplice da ricordare, d’impatto immediato e rappresentativo dello stile dell’artista, oltreché originale e, se possibile, unico al mondo. Tuttavia, queste regole di base – semplici solo in apparenza , non sempre vengono rispettate, generando così spiacevoli malintesi, estemporanee correzioni a carriera già avviata e, nei casi peggiori, contenziosi da risolvere in tribunale.
A tal proposito, una delle storie più interessanti è quella dei Velvet Underground, una rock band attiva tra gli anni Sessanta e Settanta con base a Newcastle, in Australia. Per chi se lo stesse chiedendo, in quest’ultima frase non c’è nessun errore, ma soltanto un’incredibile coincidenza.
Quella del 1967 è stata indubbiamente una delle annate più importanti per la storia della musica rock. Da gennaio a dicembre, infatti, sono state pubblicate alcune delle più influenti pietre miliari del genere: da Between the Buttons dei Rolling Stones a Sgt. Pepper dei Beatles, da Are You Experienced di Jimi Hendrix a The Piper in the Gates of Dawn dei Pink Floyd, passando per gli album d’esordio di mostri sacri come David Bowie, Leonard Cohen e i Doors.
Se si mettessero in ordine alfabetico i gruppi musicali al debutto in quell’anno, però, qualcosa non tornerebbe: i Velvet Underground comparirebbero non una, bensì due volte.
IL LIBRO
La prima, per un album che tutti conoscono, The Velvet Underground & Nico, quello con in copertina la celebre banana ideata da Andy Warhol; la seconda, invece, per una band omonima e ad oggi rimasta semi-sconosciuta, composta da cinque scalmanati australiani decisi a portare alle loro latitudini le sonorità che facevano impazzire i giovani dall’altra parte del mondo.
Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker – la formazione originale dei Velvet di New York – per il nome del gruppo si ispirarono ad un libro scritto dal giornalista Michael Leigh, intitolato The Velvet Underground appunto, che documentava con un’approfondita inchiesta le tendenze, le pulsioni e le perversioni sessuali della New York sotterranea dei primi anni Sessanta. Curiosamente, il libro finì nelle mani di John Cale attraverso l’amico Tony Conrad, violinista, pioniere del minimalismo e tra i fondatori del collettivo sperimentale Theatre of Eternal Music, che in tanti chiamano The Dream Syndicate creando un altro caso di omonimia musicale, in questo caso con la band di Steve Wynn, celebre negli anni Ottanta e tuttora in attività.
ANIMALE DA PALCO
Non è chiaro, invece, come Steve Phillipson, il leader dei Velvet australiani, sia arrivato a scegliere lo stesso nome del gruppo di Lou Reed, in quegli anni ancora ben lontano dall’essere conosciuto universalmente. Forse anche per loro il libro può essere stato uno stimolo importante. Di certo c’è che, una volta scoperta la coincidenza, Phillipson e compagni non fecero un passo indietro, convinti di poter agilmente battere in popolarità i propri corrispettivi statunitensi. Purtroppo per loro, a più di quarant’anni di distanza da quei giorni, non è necessario ricordare quale delle due band alla fine l’abbia spuntata.
Eppure, i «Velvet dell’emisfero meridionale» erano partiti alla grande, riuscendo a farsi notare non solo nella natia Hunter Valley, nel Nuovo Galles del Sud, ma anche in una metropoli musicalmente fertile come Sidney. La scena cittadina era florida e ben nutrita, ma loro avevano semplicemente una marcia in più, e non solo tecnicamente. Oltre ai musicisti Herman Kovacs, Russell Bayne e Mark Priest, che nei decenni successivi diventeranno turnisti di ottimo livello, la vera attrazione era proprio Phillipson, cantante, chitarrista e autentico animale da palcoscenico.
I report dell’epoca narrano di esibizioni selvagge e senza freni, in cui il frontman si presentava al pubblico camminando su appuntiti cocci di vetro e imitando le movenze – portandole all’estremo, naturalmente – di Mick Jagger, uno dei suoi idoli. Il vero colpo di scena, però, arrivava sulle prime note della cover di Fire, il famoso brano di Jimi Hendrix: Phillipson, davanti alla folla adorante, si dava letteralmente fuoco, grazie a del liquido infiammabile per accendini abilmente nascosto nella manica della sua giacca di pelle. A quanto pare, soltanto in un’occasione la sicurezza dovette interrompere il concerto prima del dovuto a causa di questo pericoloso ma scenografico stratagemma. Si può dire, insomma, che i Velvet inaugurarono una nuova frontiera – seppur nella maniera più estrema e trasgressiva possibile – del divertimento e della musica dal vivo nella città famosa soprattutto per lo spettacolare ed elegantissimo Teatro dell’Opera.
INSUCCESSO
Sulle ali dell’entusiasmo, nel 1970 il gruppo pubblicò il loro primo singolo, un 45 giri rimasto come unica testimonianza della loro esistenza. Solo due canzoni: da un lato Somebody to Love dei Jefferson Airplane; dall’altro, She Comes in Colours, una cover del brano scritto da Arthur Lee dei Love. Quest’ultima in particolare rivelava nobili influenze tra rock progressivo e psichedelico, con esplicite citazioni al Frank Zappa dell’album Hot Rats, pubblicato giusto l’anno precedente. Il disco, comunque, non ebbe il successo sperato, e questo spinse presto i Velvet a cercare rifugio in altri generi, abbandonando lo stile aggressivo degli inizi. Phillipson lasciò la band per ritirarsi in solitaria tra le montagne di Greenmount, alla ricerca di una vita più tranquilla e lontana dalle esibizioni incendiarie a cui aveva abituato il suo pubblico. Di lui, quindi, si persero velocemente le tracce, mentre il resto della formazione continuò a suonare in giro per l’Australia, potendo anche contare, dal 1970 al 1972, su un chitarrista d’eccezione: lo stesso Malcolm Young che, qualche tempo dopo, avrebbe fondato gli AC/DC, il gruppo australiano più famoso di tutti i tempi. Herman Kovacs, il batterista, in una recente intervista si è detto convinto che Angus Young, il leader della band di Highway to Hell e Back in Black, abbia deciso di fare della musica la propria ragione di vita assistendo dal vivo a un concerto del fratello maggiore Malcolm con i Velvet Underground.
Infine, la storia dei Velvet si concluse definitivamente nel 1973 – anche in questo caso quasi in concomitanza con gli omonimi newyorkesi – quando i componenti del gruppo vennero ingaggiati come musicisti di supporto di Ted Mulry, una delle rockstar più conosciute nell’Australia di quegli anni. Il destino incrociato dei «Velvet dei due mondi», comunque, non è un caso isolato. Basti pensare ai Charlatans – un gruppo inglese obbligato ad esibirsi negli Stati Uniti col suffisso «UK» per non esser confuso con una band americana con lo stesso nome – o alla divertente storia dei Nirvana britannici, gruppo psichedelico degli anni Sessanta che nel 1996 – proprio in risposta al «furto» del nome da parte di Kurt Cobain e soci – pubblicarono una provocatoria e spiazzante cover di Lithium, uno dei brani più famosi della band di Seattle, declinandone le atmosfere oscure e decadenti in chiave hippie e «flower power».
Attenzione al nome, quindi. In alcune circostanze può contare molto più di quanto si pensi – tanto in positivo quanto in negativo – per il destino di un’intera carriera.