Giorgio Napolitano e Matteo Renzi. Nel giorno in cui tutti i giochi che contano si fanno lontano dalla ribalta, e a giocare sono la destra e i grillini di rimbalzo, due figure del Pd si prendono almeno l’avanscena. L’ex presidente della Repubblica con un lungo e del tutto irrituale discorso da presidente provvisorio dell’assemblea, il cui senso politico è un attacco a Renzi e alle sue responsabilità nella sconfitta. L’ex presidente del Consiglio esibendo la sua tranquillità, e il suo disinteresse specialmente durante l’intervento di Napolitano.

Il senato è ancora qui, Renzi rientra nell’aula dopo un anno e mezzo: era il settembre 2016 e da capo del governo volle essere presente a un dibattito sulla ricostruzione post terremoto. Adesso è l’unico tra i senatori matricola che non esibisce almeno un po’ di emozione, esitazione, incertezza. Ma al contrario quella stessa «auto esaltazione» che secondo il presidente emerito Napolitano è la ragione per la quale «i partiti di maggioranza» sono stati punti dagli elettori. Renzi si auto esalta nel corteo di giornalisti e senatori che lo segue dall’aula alla buvette e dalla buvette all’aula. Si sistema al primo banco in modo da avere attorno un semicerchio di senatrici e sanatori che lo salutano, lo ascoltano, ridono. La dimostrazione che è ancora lui il centro di gravità del Pd che di qui a qualche giorno dovrà scegliere i capigruppo e i nomi da indicare per le vicepresidenze di senato e camera. Una messa in scena per fotografi e cameraman, che dalla tribuna si lamentano di non riuscire a inquadrarlo, assediato com’è. E lui, come li avessi sentiti, si mette in piedi, saluta qualcuno, indica da lontano, alza la voce per parlare con un senatore sistemato quattro file più in alto. Questo durante le votazioni. Durante il discorso di Napolitano sta seduto e ride.

Il senato è ancora qui, i posti a sedere sono ancora 321 e non cento come sarebbero diventati se fosse passata la riforma costituzionale voluta da Renzi e sostenuta da Napolitano. I senatori sono ancora elettivi ed è per questo che il gruppo del Pd è un gruppetto di cinquanta persone, di cui solo dieci hanno vinto nelle sfide uninominali. Anche Napolitano è ancora qui e anche lui a suo modo si impone. Nella prassi i discorsi del presidente provvisorio – a palazzo Madama il senatore più anziano – sono brevi e generici saluti, al più richiami alla Costituzione. Quando pure vengono pronunciati. Per trovare un discorso minimamente politico bisogna tornare indietro di oltre vent’anni, a De Martino, ma anche allora furono poche parole. Napolitano parla una decina di minuti proponendo la sua analisi del voto. Del «clamoroso balzo in avanti» di Cinque stelle e Lega «che hanno espresso posizioni di vera e propria rottura rispetto al passato» e della «drastica sconfitta» del Pd. «La contestazione – sostiene l’ex capo dello stato – è scaturita da forti motivi sociali». Ma anche, al sud, da «una dilagante ribellione contro i circoli dirigenti e i gruppi stancamente governanti».

Il discorso, accolto da applausi assai più timidi di quelli riservati immediatamente dopo alla neo senatrice a vita Liliana Segre (quando solo il leghista Calderoli non rende omaggio alla reduce di Auschwitz) dura una decina di minuti. E contiene anche indicazioni per le prossime tappe, in direzione di un governo che tuteli l’interesse generale dell’Italia» perché «nessuna delle forze premiate dagli elettori ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi». Considerazioni in linea con quelle che si fanno al Quirinale, ma che appunto sono adesso affidate al capo dello stato in carica. Ed è proprio Napolitano a richiamare «il rispetto delle prerogative del presidente della Repubblica» e qui, per Mattarella, l’applauso dell’aula arriva forte.

Il discorso di Napolitano cade nel Pd come un sasso nel pozzo. A parte le risate di Renzi, l’unico commento è quello di Paolo Gentiloni, per niente disturbato dalle critiche a Renzi: «Dobbiamo avere la massima considerazione per quello che dice Napolitano». L’analisi del voto del presidente emerito precede di qualche settimana quella che il Pd, forse, farà nell’assemblea nazionale. Intanto Renzi, fendendo la folla, dice ai giornalisti «non decido io la linea, chiedete a Martina». Subito dopo, però, inchioda il Pd alla finestra: «Tocca a Salvini e Di Maio, la discussione e chiusa». E si chiude lui, al Nazareno, con i fedelissimi.