Ci voleva la grazia d’antan di Guillermo del Toro, quell’arte delicata di far dialogare passato e presente nel segno dell’immaginario, per ricomporre almeno per la durata di un interminabile istante le molte espressioni che lo sguardo della science fiction sulle profondità marine ha rivelato nel corso di più di un secolo. Una «visione» che ha accompagnato le inquietudini che lo stesso scrutare del genere umano nell’oscurità di quelle acque è andato accumulando. L’amore che sboccia tra Elisa, l’introversa ragazza muta che lavora come addetta alle pulizie in un laboratorio governativo di Baltimora, e la «creatura» anfibia che vi è stata condotta in catene dall’Amazzonia, non è solo la prova tangibile che La forma dell’acqua – il titolo del film del regista messicano premiato a Venezia nel 2017, pensato come un omaggio al celebre Il mostro della laguna nera diretto nel 1954 da Jack Arnold – non può essere data in alcun modo per scontata, ma che cercare di tracciarne le coordinate senza pregiudizi o paure ma facendosi guidare unicamente dai sentimenti può rivelare molto di ciò che si sta osservando e forse qualcosa di ancor più prezioso di noi stessi.

DEL RESTO, anche a voler compiere un’indagine soltanto parziale sui linguaggi e le narrazioni che hanno immaginato il mondo oltre la sua sfera immediatamente percepibile o declinata al presente, finendo spesso per proiettarsi nelle incertezze del futuro quanto in quelle dell’animo umano, si evince come il senso della sfida sia stato più o meno sempre questo. A metà dell’Ottocento, Jules Verne, talmente attratto dal mare che a soli 11 anni aveva tentato di imbarcarsi da Nantes su una nave diretta nelle Indie, dedicò a questo elemento non pochi dei suoi «Viaggi straordinari». In Ventimila leghe sotto i mari (1869) arriverà a sfatare molti dei timori che accompagnavano la mitologia classica, trasformando la «cosa enorme», «lunga, fusiforme, talvolta fosforescente, infinitamente più grande e veloce di una balena», il «mostro marino» che affondava ogni tipo di imbarcazione, nel Nautilus, il sommergibile guidato dal Capitano Nemo. Incrociando l’afflato positivistico dell’epoca al confronto sereno con i miti del passato – sarà Nemo a guidare il professor Aronnax del Museo di Storia Naturale di Parigi tra i resti sprofondati di Atlantide -, uno degli «inventori» della fantascienza guardava agli abissi come ad un luogo della possibilità, un mondo certo da esplorare, ma senza perdere la tenerezza o la voglia di stupirsi. Convinto, come lo stesso Verne faceva affermare a Nemo, che «il mare è tutto. Copre i sette decimi del globo terrestre. Il suo respiro è puro e sano. È l’immenso deserto dove l’uomo non è mai solo, poiché sente fremere la vita accanto a sé. Il mare non è altro che il veicolo di un’esistenza soprannaturale e prodigiosa; non è che movimento e amore, è l’infinito vivente».

Cena a bordo del Nautilus in “Ventimila leghe sotto i mari” diretto da Richard Fleischer (1955)

GUARDANDO poi al lato più oscuro dei progenitori della science fiction e del fantastico, il fascino per il mare e le sue profondità si conferma potente, malgrado intrecciato spesso con oscure presenze. Per Edgar Allan Poe, il cui unico romanzo in un corpus letterario composto soprattutto da racconti e poesie, Le avventure di Gordon Pym (1838), narra delle terribili vicissitudini toccate in sorte ad un giovane imbarcato per passione a bordo della baleniera Grampus, le profondità marine erano sinonimo di mistero, ma soprattutto della «fine», come conferma una sua nota poesia, forse ispirata al mito di Atlantide, La città del mare: «Rassegnate sotto il cielo/ Giacciono le acque melanconiche/ Tanto si confondono qui ombre e torrette/ Che tutto pare nell’aria esser sospeso/ Nella città da una superba torre intanto/ Gigantesca la morte guarda in basso».

Ed è in uno degli «eredi» di Poe, a sua volta in grado di influenzare molto di quanto si è scritto in seguito, H. P. Lovecraft, che si ritrova sia l’attenzione per l’elemento marino che per il tema del mondo sommerso, spaventoso e segnato da una maledizione – come la città morta di R’lyeh, rinvenuta su di un’isola affiorata dal nulla, ne Il richiamo di Cthulhu (1928) -, ma anche l’idea che gli abissi possano rappresentare la sola possibilità di vita rimasta all’umanità. Temi che emergono in L’oceano di notte (1936), l’ultimo racconto scritto dall’autore di Providence poco prima della morte. «Ci sono uomini, anche sapienti, che non amano il mare e lo sciabordio delle onde sulle spiagge dorate – scrive Lovecraft -: ci giudicano strani, noi che amiamo il mistero dell’antico e infinito abisso. Ma per me negli umori dell’oceano c’è un fascino misterioso, indefinibile (…) È vasto e solitario, e tutte le cose sono nate dal suo grembo e vi torneranno. Nelle epoche remote del futuro nessuno abiterà sulla terra e il movimento non esisterà più, salvo nelle acque eterne». A questo si può aggiungere come gli «abitatori del profondo» descritti da Lovecraft negli anni Trenta abbiano plasmato per sempre l’immagine dell’ibrido tra l’uomo e i figli del mare: esseri anfibi dal corpo di uomo ma con teste che ricordano il cranio dei pesci, la schiena ricurva e attraversata da una cresta ossea, branchie palpitanti attorno al collo e arti lunghi dalle estremità palmate.

LONTANO DAL FASCINO spaventoso di questi anfibi antropomorfi si muove invece la grande stagione della fantascienza incarnata nel secondo dopoguerra da due dei maggiori protagonisti del genere, Isaac Asimov e Ray Bradbury. Lo sguardo è in questo caso rivolto decisamente altrove. Così mentre i protagonisti delle Cronache marziane (1950) che rivelarono il talento di Bradbury, «i coniugi K», marziani dalla pelle ambrata e gli occhi gialli, «vivevano da vent’anni presso il mare estinto e i loro avi avevano vissuto nella stessa casa, che girava su se stessa, seguendo il sole, come il fiore, da dieci secoli», Abissi d’acciaio (1954), tra i romanzi più celebri di Asimov, racconta la vita nelle metropoli sotterranee dove l’umanità si è rifugiata per sfuggire alle insidie della vita in superficie: città da milioni di abitanti che evocano, almeno come suggestione, gli abissi abitati di un tempo.

Un’immagine ispirata a “Il mondo sommerso” di James G. Ballard (1962)

Si dovrà attendere Il mondo sommerso (1962) di James G. Ballard, le cui opere avrebbero però indagato anche in seguito più le derive possibili dell’umanità che non il fascino, seppure minaccioso, del futuro, per incontrare gli scenari post apocalittici che dominano la science fiction dell’ultima stagione. In questo caso, il surriscaldamento terrestre è frutto di tempeste solari che hanno prodotto lo scioglimento dei ghiacci polari e un drammatico innalzamento delle acque a livello planetario. Ad una squadra di ricercatori che perlustra quel che resta di intere città sommerse appaiono «i sopravvissuti di una civiltà scomparsa, psicopatici, malnutriti», uomini che nuotano sotto la superficie subendo «la metamorfosi imposta dall’acqua: i loro corpi fluttuanti venivano trasformati in chimere baluginanti, simili a pulsanti esplosioni di pensiero in una giungla neuronica».

Una valida introduzione, dal sapore di una premonizione, all’orizzonte esplorato dalla cosiddetta climate fiction (sci-fi), l’ultima frontiera della fantascienza che perlomeno da un ventennio sta affrontando ciò che i cambiamenti climatici frutto dell’agire umano potranno produrre e sempre più spesso stanno già producendo intorno a noi. Una tendenza che almeno in parte si intreccia con le distopie, politiche e sociali e non soltanto ambientali, narrate da Michael Crichton, Margaret Atwood, Jeff Vandermeer e perfino da Cormac Mc Carthy. Se all’origine del fenomeno si situano romanzi come Solar (2010) di Ian McEwan o Amico della terra (2001) di T. C. Boyle, sono decine i titoli che raccontano ormai il volto quotidiano della catastrofe, scrutando gli abissi come un mare domestico la cui prossimità è però indice di inquietudine e minaccia. Al confine con l’eco-thriller, la sci-fi si rappresenta come scrittura «impegnata», attenta a denunciare pericoli che un cambio di rotta dell’umanità potrebbe, se non evitare, perlomeno addolcire quanto a impatto e conseguenze sulla vita del pianeta.

“La forma dell’acqua”, diretto da Guillermo Del Toro (2017)

COSÌ, PER LA POETESSA americana Kassandra Montag, al debutto narrativo con Terre sommerse (2020), le ricorrenti inondazioni prodotte dal cambiamento climatico hanno trasformato gran parte degli Stati Uniti, e del mondo intero, in una distesa oceanica da cui emergono rare isolette dove i sopravvissuti resistono in piccole comunità abbarbicate intorno alle antiche cime delle montagne o in «nazioni» che hanno l’estensione di una nave da crociera. Di fronte a tale scenario, la protagonista non riesce a descrive alla figlia, nata «dopo l’alluvione», «ciò che giace sotto di noi» e ammette: «Un tempo mi tuffavo a pescare in queste città sott’acqua, ma ultimamente lo facevo solo quando ero disperata. Non mi piaceva dover pensare a com’era stato il mondo».

Non c’è spazio per la poesia mentre si scrutano i fondali dove si sono depositati i ricordi di ciò che la vita umana fu un tempo. E anche l’amore al tempo del cambiamento climatico sembra un residuo di qualcosa che non è più. O non è più possibile. Eppure, quasi svolgendo a ritroso questo lungo itinerario nell’immaginario dei mondi possibili, sognati e temuti, è proprio questo che sembra suggerire La forma dell’acqua nell’abbraccio senza fine tra la giovane donna e la «creatura» uscita dalle profondità del mare: dentro questa estrema e temibile incertezza si cela la misura di un incontro ancora possibile, oltre la terra e il mare. Come recitano i versi che concludono il film, forse ispirati ad un poeta sufi: «Incapace di percepire la forma di Te, ti trovo tutto intorno a me. La tua presenza mi riempie gli occhi del tuo amore, umilia il mio cuore, perché tu sei ovunque».