Gisèle ha una tunica strappata che le lascia scoperte le braccia, quasi mascoline da quanto sono forzute. «Verso dicembre devo raddoppiare la lunghezza della corda», racconta riferendosi al livello dell’acqua nel pozzo di casa che con l’imminente inizio della stagione secca scenderà fino ad azzerarsi. «Ogni anno è così, ma ho l’impressione che la stagione delle piogge si avvii sempre più tardi».

Siamo a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, dove la maggior parte della popolazione dipende dall’acqua di falda per l’approvvigionamento idrico. Pozzi profondi, rudimentali e quasi sempre manuali, che causano litigi e tensioni per le estenuanti code che si fanno sempre più lunghe man mano che si avvicina la stagione secca. A Bangui però non è la carenza d’acqua ad attanagliare la popolazione locale, ma il suo eccesso.

Sesto circondario, sud-ovest della capitale. Lungo il fiume Ubangi, confine naturale con la Repubblica Democratica del Congo, quasi trecento persone vivono in una tendopoli allestita in seguito all’alluvione del 2019. «Abbiamo dovuto abbandonare le nostre case», spiega un sfollato, mostrando in lontananza ciò che rimane del loro villaggio sulla grande isola di Bongo Soua. «Viviamo qua da troppo tempo. Non abbiamo acqua potabile e nell’accampamento imperversano casi di malaria, scabbia e tifo». L’uomo è uno dei 33 mila colpiti dall’inondazione.

«Quando esco per l’acqua so che devo stare attenta, perché andare a procurare corro il rischio di essere molestata dai numerosi delinquenti di strada, soprattutto la sera quando inizia a fare buio», racconta una signora che vive nella tendopoli. «Se usiamo l’acqua del fiume per cucinare e lavarci spesso ci ammaliamo, ma poi non abbiamo i sodi per curarci. L’ospedale è caro e le medicine costano troppo», dice indicando una polvere verdastra messa a seccare a terra e destinata ad essere usata come tisana curativa.

Nel campo è pieno di bambini che girano mezzi nudi. Anche l’abbandono scolastico è una diretta conseguenza dell’alluvione. Come per Adeline, che ha 15 anni e da due non frequenta le lezioni perché la sua famiglia non può più pagare le tasse scolastiche (neanche cinque euro all’anno). Invece di andare a scuola, ogni giorno la ragazza prende la piroga per tornare sull’isola e raccogliere la legna che poi rivenderà nel pomeriggio lungo le strade di Bangui.

IN AGGIUNTA ALLE ALLUVIONI di carattere eccezionale, in Repubblica Centroafricana anche una semplice pioggia può trasformare i quartieri della capitale in vere e proprie paludi. Ne consegue che le abitazioni si riempiono d’acqua, nel migliore dei casi, o cedono poiché prive di fondazioni.

«Quando piove ho paura, perché l’acqua entra nella mia casa», spiega Sylvie, una bambina che vive in un quartiere allagato della capitale. La piccola, che ha solo dieci anni, è già una sfollata di guerra. Lei e la sua famiglia hanno dovuto lasciare il villaggio natale nella Prefettura di Basse-Kotto per scappare dai gruppi armati. Ora vivono a Bangui da più di un anno e se non sono più i colpi di pistola a terrorizzarli, sono piuttosto le intemperie climatiche. Questa famiglia, che un tempo praticava l’agricoltura, oggi è allo stremo. Il padre non lavora più e la madre vende manioca per strada a pochi centesimi al pezzo.

Come loro, la maggior parte della popolazione della Repubblica Centrafricana (3.8 milioni di persone su un totale di 5.9) è dedita all’agricoltura, principalmente di sussistenza. Ma il settore agricolo nel paese risulta essere messo a dura prova da un lato dai conflitti (le tensioni intra-comunitarie e i gruppi armati rendono spesso impossibile l’accesso ai campi) e dall’altro dalle conseguenze dirette e indirette del cambiamento climatico.

COME RIVELA UN RECENTE STUDIO della Banca Mondiale, le temperature in Repubblica Centroafricana sono destinate ad aumentare da 3.1 a 5.7 gradi centigradi entro la fine del secolo. Secondo tali previsioni, il cambiamento climatico si tradurrà in un aumento nella frequenza e nell’intensità delle precipitazioni, ma anche in periodi secchi più lunghi.

L’irregolarità delle piogge e l’aumento dei periodi di siccità si faranno sentire sulla produttività delle colture e costringeranno gli agricoltori a cercare nuovi terreni coltivabili nelle foreste. In aggiunta, le dinamiche dei parassiti cambieranno e intaccheranno con buona probabilità sia la salute animale che quella umana, con nuove condizioni ambientali favorevoli alla trasmissione delle epidemie.

Léon, ex-funzionario del centro sanitario universitario oggi in pensione, completa il quadro raccontando che sta seguendo con attenzione gli eventi di Glasgow sulla Cop26: «Io non lo so se il mio paese sta soffrendo per il cambiamento climatico o no, ma se non faremo qualcosa alle svelte qua la gente rischia di perdere i raccolti, perché gli agricoltori iniziano a seminare senza più avere un calendario agricolo attendibile, magari in seguito ad una pioggia tardiva o fuori stagione e i germogli non trovano più l’acqua necessaria per svilupparsi».

Gli effetti del cambiamento climatico sono ancora in fase emergenziale in Repubblica Centrafricana, ma considerando che il clima del paese è uno dei meno monitorati al mondo, con stazioni meteorologiche obsolete e una penuria generale di banche dati storiche, l’impatto del riscaldamento globale e della cattiva gestione delle risorse ambientali è sicuramente sottostimato.

LA REPUBBLICA CENTRAFRICANA SOFFRE le conseguenze secondarie del cambiamento climatico. La crescente siccità negli stati del Sahel sta alterando le caratteristiche della transumanza (lo stagionale spostamento dei pastori) nell’Africa centrale. Ne consegue che le risorse idriche e il foraggio si fanno più scarsi e la Repubblica Centrafricana sta diventando un bacino d’accoglienza per le mandrie provenienti dall’esterno, compromettendo il delicato equilibrio intra-comunitario per l’accesso ad acqua e pascoli.

IL PAESE È TRA I MINORI PRODUTTORI al mondo di gas climalteranti, con una produzione annua di anidride carbonica pari a 0.1 tonnellate pro capite, rispetto alla media mondiale di 4.5, o a quella statunitense di 15.2 (dati Banca Mondiale 2018). Tuttavia, nonostante la bassa produzione di gas ad effetto serra, risulta essere estremamente vulnerabile al cambiamento climatico. L’accesso della popolazione ai servizi sociali di base è molto limitato, se non inesistente, e questo rende la Repubblica Centrafricana ancora più impreparato a fronteggiare le previsioni climatiche previste.