Un secolo di rivalità rugbistica segna la storia degli All Blacks e degli Springboks. O per meglio dire, novantotto anni, considerando il 13 agosto 1921 come data di inizio: quel giorno le due squadre si affrontarono a Dunedin, nell’isola del Sud, nel loro primo test match. Vinsero i tuttineri con il punteggio di 13-5. Da allora le due super-potenze del mondo ovale si sono incontrate 98 volte. Sulla rivalità rugbistica che separa queste due nazioni si sono scritti libri, riempite le cronache, accumulati aneddoti. Piccole e grandi storie, compresa qualche ignominia come spesso accade quando lo sport incrocia le peggiori vicende politiche del Novecento. Per tutti gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta le relazioni rugbistiche tra il Sudafrica razzista dell’apartheid e la Nuova Zelanda sono state marchiate a fuoco dalle polemiche. Tour segnati da proteste e scontri di piazza, giocatori di etnia maori accettati solo in quanto “bianchi onorari”, partite disputate con cavalli di frisia e filo spinato intorno al campo di gioco, nobili rifiuti ma anche squallide ipocrisie, come il tour del 1986 con gli All Blacks travisati come “Cavaliers” e finanziati da un’azienda sudafricana. Un altro tempo, un alto rugby.

A Yokohama All Blacks e Springboks si sono incrociati per la sfida numero 99. Era in palio il primo posto virtuale (siamo ancora alla prima giornata) nel girone B della Coppa del mondo, quel girone al quale i sorteggi hanno destinato anche l’Italia, condannandola a un ruolo di comprimaria. La vittoria è andata ai neozelandesi con un punteggio tutto sommato di misura: 23-13. Match intenso e fisicamente devastante. Inizio più arrembante da parte dei bokke, molto aggressivi ma poco concreti: tre soli punti per loro nei primi venti minuti e tanta difficoltà ad aprire il gioco e mettere in azione le due velocissime ali, Mapimpi e Kolbe, di cui si annunciavano meraviglie. Al 18’ André Pollard spediva sul palo il calcio del possibile 6-0 e lì si esaurivano i furori sudafricani. A quel punto cambiava il vento e si alzava un’onda nera che nel giro di sei minuti, tra il 21’ e il 27’, tutto sommergeva. Gli All Blacks cominciavano a far girare palla e i due registi – Richie Mo’unga all’apertura e Beauden Barrett schierato all’estrema con licenza creativa – mandavano in tilt la difesa avversaria. Dopo un piazzato di Mo’unga (21’) giungevano le mete di George Bridge (23’) e Scott Barrett (27’) e con le trasformazioni i campioni in carica si issavano sul 17-3, dando l’impressione di avere la partita saldamente in pugno. Il tentacolare Ardie Savea giganteggiava nei punti di incontro; Kieran Read ammaniva la sua leadership morale; Lienert-Brown zigzagava tra le maglie verdi. Velocità, competenza, ritmo insostenibile. Intervallo. E ossigeno per gli Springboks, letteralmente a un passo dall’asfissia. Il piano di gioco predisposto da Rassie Erasmus non trovava interpreti all’altezza. Faf De Klerk, il mediano di mischia, sembrava tanto intraprendente quanto impreciso, a volte persino grossolano nei passaggi. I calci a spiovere di Willie Le Roux erano una manna per i guardiani in nero. Unica certezza le prime e seconde linee, ma era davvero toppo poco per ritornare a galla. Eppure gli Springboks riemergevano dalla palude. Pieter Du Toit con una mossa astuta sorprendeva la difesa neozelandese al 47’ e un drop di Pollard riduceva le distanze: 17-13.La fatica affiorava e cominciava la girandola delle sostituzioni. Il Sudafrica perdeva per la prima volta una mischia a favore e sul calci di punizione Mo’unga allungava a 20-13. Cinque minuti dopo toccava a Beauden Barrett piazzare tra i pali il penalty della sicurezza. Sipario.

Azzurri: domani l’esordio con la Namibia

Quattro punti in classifica per gli All Blacks, zero per gli Springboks. E domenica è di scena l’Italia contro la Namibia (Rai2 alle 7.15 del mattino), quadra che il ranking di World Rugby colloca al 24° posto. Sulla carta è una partita che gli azzurri possono tranquillamente vincere; per ragioni di classifica sarebbe necessaria una vittoria larga con tanto di punto di bonus, in modo di collocarsi in testa al girone in vista della sfida con il Canada in programma giovedì prossimo. Poi arriverà la tempesta: il Sudafrica il 4 ottobre e gli All Black il 12. Conor O’ Shea, il coach irlandese che da quattro stagioni guida la panchina azzurra, ha già annunciato il suo addio dopo i mondiali, chiudendo con due anni d’anticipo il contratto che lo lega alla federazione. La spiegazione: ragioni di famiglia. Il sospetto: dopo un quadriennio trascorso in un ambiente come il rugby italiano in cui ogni realtà sembra andare per conto proprio inseguendo il particulare guicciardiniano a dispetto dell’interesse generale (la nazionale, che è traino e motore del movimento rugbistico), O’Shea si è reso conto di non poter cavare sangue dalle rape. Comunque sia toglie il disturbo e lascia il rugby italiano in brache di tela: Rob Howley, l’assistente allenatore del Galles che avrebbe dovuto prendere il posto di O’Shea, è stato appena cacciato dalla sua federazione e dai mondiali per una vicenda di scommesse illegali. Possiamo dire che il sentimento più diffuso nei piani alti della federugby italiana è il disappunto, seguito da un certo imbarazzo.

Questo dunque il clima nelle ore che precedono l’esordio conto la Namibia, squadra di cultura rugbistica sudafricana e perciò molto “fisica”. E’ la quarta sfida tra le due nazionali: due sconfitte in un tour del 1991 e un successo nel 2001. O’Shea ha deciso di tenere a riposo molti di suoi potenziali titolari, a cominciare da Matteo Minozzi e Jake Polledri, che vanno in panchina. Giocano: Hayward; Padovani, Benvenuti, Morisi, Bellini; Allan, Tebaldi; Parisse, Mbanda, Steyn; Ruzza, Zanni; Pasquali, Bigi, Quaglio. In panchina: Fabiani, Ferrari, Riccioni, Budd, Polledri, Palazzani, Canna, Minozzi.

La vendetta dei galletti

Era un conto aperto che durava da dodici anni, quello che la Francia aveva con gli argentini. Risaliva ai mondiali del 2007, quando i transalpini ospitarono la loro prima Coppa del mondo ed erano convinti di arrivare in finale dove avrebbero potuto trovare gli All Blacks e, complice il tifo di casa, giocarsela alla pari. Andò invece in ben altro modo. Nella partita di esordio, il 7 settembre allo Stade de France, trovarono dei Pumas indiavolati che fecero loro male, molto male. Finì 17-12 per gli argentini e fu una gran bella lezione di rugby. Ma non bastava. Secondi classificati nel girone, i galletti raggiunsero comunque i quarti, fecero l’impresa eliminando gli All Blacks in un match leggendario, persero in semifinale con gli inglesi, si ritrovarono l’Argentina nella finalina per il terzo posto che si disputò nel delizioso Parc des Princes. E lì persero di nuovo, non solo il bronzo ma anche l’onore: i Pumas li sbranarono: 34 a 10. Lutto nazionale. La sfida di oggi a Osaka era dunque un piatto piccante. Con l’Inghilterra nel medesimo girone sapeva di possibile spareggio per il secondo posto e la qualificazione ai quarti. Una Francia con molte incognite e alcune scelte tecniche che hanno destato scalpore (Brunel ha lasciato a casa Bastareaud, da molti considerato giocatore irrinunciabile), un’Argentina che nell’ultimo Rugby Championship è apparsa alquanto appannata ma pur sempre capace di dare il meglio nella rassegna iridata.

E’ finita 23 a 21 per la Francia che ha dominato il primo tempo (chiuso sul 20-3 con mete di Fickou e del bravissimo medino di mischia Dupont) mettendo in scena scampoli di quel rugby champagne che l’avevno resa celebre. Nel secondo tempo il ritorno degli argentini con le mete di Petty Pagadizabal e Montoya e un gran lavoro del loro pacchetto di mischia. Al 68’ arrivava il sorpasso (21-20) dei Pumas con penalty di Urdapilleta. Ma un minuto dopo arrivava il controsorpasso francese con un drop di Camille Lopez, mentre Urdapilleta (subentrato a Sanchez) falliva un piazzato a un minuto dal fischio di chiusura.

Nel girone D successo dell’Australia su Figi (39-21). Nel girone A la partita di inaugurazione ha visto il Giappone superare la Russia con il punteggio di 30-10.