Il breve, ma intenso saggio di Michel Serres Non è un mondo per vecchi contiene passaggi che possono essere piegati a una analisi sulla condizione di lavoro, e di sfruttamento, dei knowledge workers. Il navigato filosofo di origine francese, ma statunitense per lavoro – insegna da decenni storia della scienza a Stanford -, mette a fuoco l’accesso al sapere in una realtà dove le tecnologie digitali sono il principale medium della comunicazione e dove l’educazione, la formazione sono mediate sempre più dalla Rete. Serres rifiuta il cahier de doléance di molti intellettuali «umanisti» rispetto la perdita di ruolo che investe le istituzioni tradizionali della formazione (scuola, università), ma mette in discussione anche il determinismo di molti «scienziati», in base al quale Internet e la tecnologia in generale hanno il potere di cambiare la realtà. Nel proporre una «terza via» riprende un suo vecchio cavallo di battaglia, la possibilità cioè di conciliare il sapere umanistico con quello scientifico, partendo dal presupposto che entrambi provano a svelare la realtà usando metodologie e campi di applicazione differenti.
È tuttavia consapevole che il computer è la «macchina universale» immaginata da Alan Turing, attraverso la quale non si possono solo risolvere teoremi e calcoli in tempi rapidissimi, ma consente anche di comunicare, di elaborare dati, di memorizzare conoscenza e di diffonderla, rompendo così le barriere del tempo e dello spazio.

La Rete, per Serres, non è tanto un continente nuovo che ha bisogno di coordinate e bussole specifiche per orientarsi, piuttosto è un manufatto prodotto socialmente. Per comprendere il suo «impatto» non serve dunque capire come funzionano le macchine, ma come le relazioni sociali condizionano la loro produzione e di come le relazioni ne escono modificate una volta che il computer è usato come tecnologia della conoscenza.

Per svelare le dinamiche di questo doppio movimento – le macchina come prodotto sociale, il sociale modificato dalle macchine – Serres mette a fuoco i rapporti di familiarità che i giovani hanno con computer, telefoni cellulari e, cosa più interessante, con il «codice» della Rete, inteso, quest’ultimo, nel doppio significato di programmi informatici, standard tecnici per la comunicazione on line e convenzioni socialmente necessarie per stare on-line. Con ironia, Serres annota con stupore e affettuosa invidia la velocità della sua immaginaria interlocutrice, Pollicina, nel pigiare i tasti dei telefoni cellulari, la sua capacità di operare in multitasking quando è di fronte al video, la sua indifferenze nel ricordare le informazioni, i siti, la conoscenza acquisita. Per tutte queste operazioni, c’è infatti la Rete, un altro da sé che non pone tanti problemi, perché è un animale digitale affidabile e mansueto, mai ostile. Basta scrivere il nome di un sito, di una parola chiave e il «codice» fornisce i risultati desiderati.

Un accessorio della mente

Nell’era digitale, infatti, la memoria è considerata un accessorio esterno alla mente. Perché, infatti, perdere tempo a ricordare, visto che tale operazione può essere svolta velocemente da un computer. La memoria è quindi ridotta a un dispositivo dove affastellare in ordine sparso dati, informazioni, grumi di sapere, che poi un apposito programma o motore di ricerca ordina secondo le necessità. Serres annota inoltre come i «vecchi» arranchino nell’apprendere il funzionamento di nuovi programmi informatici, del loro senso di smarrimento di fronte al mondo rappresentato negli schermi dei computer, del loro timore di essere tagliati fuori. Una situazione paradossale, viene da aggiungere, visto che l’esperienza del loro digital divide è contemporanea all’essere, i vecchi, i detentori del potere. Un paradosso che sarà risolto con la loro morte. Per il momento, occorre annotare la familiarità e incondizionata adesione alle tecnologie digitali dei «giovani», registrando tutt’al più i dubbi, le perplessità dei vecchi verso tale fascinazione.

Ci sono dei passaggi in questo Non è un mondo per i vecchi che si collocano comunque anche su altri piani e che hanno, appunto, a che fare con la condizione dei lavoratori della conoscenza. Michel Serres introduce poco dopo l’avvio del saggio il termine «connettivo» per indicare la tendenza a sviluppare link e associazioni tra grumi di conoscenza tra loro diversi. È dai tempi di Marsilio Ficino che la caratteristica del cervello umano a stabilire connessioni e associazioni si è imposta all’attenzione degli studiosi per quanto riguarda la mnemotecnica. Con Ficino, era il cervello che connetteva i sensi con la natura, aprendo la strada alla conoscenza del creato, mentre per i mnemotecnici la tendenza del cervello ad associare l’esperienza conoscitiva a singole parole consentiva di sviluppare tecniche che rendevano più veloce il ricordo.

Con il computer la tendenza alla connessione può essere emancipata dal cervello umano. Internet più che l’albero dell’intelletto generale è il medium per potersi muovere nel «deposito» della conoscenza senza fare ricorso alla mente umana. È il computer e il «codice» che lo fa funzionare a compiere tutto questo. L’animale umano può dedicarsi ad altre occupazioni, come la selezione nel flusso di informazioni le parole necessarie allo svolgimento di una azione, di un lavoro. Da qui la centralità, per Serres, degli algoritmi cognitivi, cioè di quelle procedure che consentono, se seguite con attenzione, la risoluzione di problemi.

[do action=”citazione”]Quelle che ven­gono ormai con­si­de­rate pato­lo­gie (defi­cit dell’attenzione, stress, per­dita di con­cen­tra­zione) sono l’esisto di un plu­sla­voro che vede il sin­golo sot­to­po­sto ai ritmi impo­sti dal sistema di mac­chine[/do]

Marginalità delle macchine

Se ci si sofferma su questo aspetto, le pagine che il filosofo francese dedica alla «connettività» e agli algoritmi cognitivi sono descrizioni del lavoro della conoscenza. E quelli che vengono ormai considerate patologie (deficit dell’attenzione, stress, perdita di concentrazione) sono l’esisto di un pluslavoro che vede il singolo sottoposto ai ritmi imposti dal sistema di macchine. La Rete è dunque protesi cognitiva. Il singolo può quindi smettere di ricordare, delegando questa funzione al computer, concentrandosi su come rendere la conoscenza che emerge dalla Rete una materia prima del processo lavorativo. L’intervento umano deve semmai sviluppare veri e propri algoritmi cognitivi, cioè le procedure per dare senso compiuto alla conoscenza scovata dal «codice» – programmi informatici, ma anche regole di comportamento – nella Rete. È in questo contesto che c’è sfruttamento, pluslavoro e, continuando ad usare un lessico marxiano, una diversa modulazione del rapporto tra lavoro vivo e lavoro morto, dove i singoli devono appropriarsi e, al tempo stesso, diventare appendici del «codice» e delle macchine per valorizzare la conoscenza. Il sistema di macchine diviene così un fattore marginale, residuale del processo lavorativo, mentre è nel lavoro vivo la fonte primaria della performance produttiva. Ed è sempre in questo contesto che tra plusvalore relativo e plusvalore assoluto non sono sono più momenti distinti, ma componenti di un unico momento di valorizzazione capitalistica. Già perché negli attuali atelier della produzione la giornata lavorativa ha rotto gli argini delle otto ore, mentre l’intensità del lavoro (la produttività cara agli economisti) aumenta anch’essa.

Per questi motivi, l’analisi di Serres può gettare luce nei moderni atelier della produzione, aiutando a svelare il loro arcano. È certo che siano i «giovani» la componente del lavoro vivo che esperisce questa forma di sfruttamento. È infatti indubbio che i cosiddetti «nativi digitali» siano cresciuti con la Rete e che abbiano affinato velocità di apprendimento delle tecnologie digitali e del «codice» che le fa funzionare. Ma quello che Serres omette di affrontare è la pervasività di Internet, che coinvolge quindi sia i «giovani» che i «vecchi». Il deficit di attenzione, di concentrazione, di alienazione sono infatti esperienze vissute tanto dai «giovani» che dai «vecchi», perché entrambi immersi in una realtà dove le macchine informatiche sono onnipresenti e dedicate non solo al lavoro, ma anche alla socialità.

Il volume di Michel Serres si conclude con un invito all’ottimismo della ragione. Invito da accogliere, ma solo se piegato alla necessaria ricomposizione del lavoro vivo per interrompere questa lineare e automatica messa al lavoro delle nostre facoltà cognitive e sviluppare così il «codice» che ci conduce fuori dall’inferno del lavoro salariato.