Il giudizio di Carlin Petrini sulle azioni dei governi per contrastare il cambiamento climatico e gli effetti del riscaldamento globale è laconico: «Non è più tempo di affermazioni di principio». Fino al 12 novembre è in corso a Glasgow il vertice Onu sul clima, la Cop26, e Petrini – gastronomo e fondatore di Slow Food e dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo – è critico circa il possibile successo dell’appuntamento: «Manca una coscienza internazionale condivisa. Siamo arrivati alle ventiseiesima conferenza delle parti, ma che cosa hanno tirato fuori? Non so se dobbiamo davvero arrivare al limite del baratro per poi fermarci, oppure stabilire che l’uomo è tutt’altro che sapiens. Pochi giorni fa c’è stato un uragano in Mediterraneo: se me ne avessero parlato trent’anni fa, avrei chiesto ai miei interlocutori se fossero scemi, e invece è successo davvero». Quasi si scusa, Carlin Petrini, ma spiega: «Oggi la prendo con un po’ di magone».

Non gli regala un sorriso nemmeno la proposta di piantare mille miliardi di alberi entro il 2030, uscita tra le conclusioni del G20 che si è chiuso a Roma alla fine della settimana scorsa? Un’idea che fa propria e amplifica quella lanciata in Italia nel 2019 proprio da lei, insieme allo scienziato Stefano Mancuso e al vescovo di Rieti, Domenico Pompili.

Questa esigenza di implementare la piantumazione è una soluzione positiva, ma è certo che mai come in questo momento occorra un approccio sistemico, perché intervenire in un solo ambito, di fronte a questo disastro annunciato, non è sufficiente. La riduzione delle emissioni di gas climalteranti, su tutti la CO2, è l’elemento principale ma non vorrei che la piantumazione fosse vista come una specie di soluzione rispetto al disastro, perché è una cosa positiva se si inserisce in un contesto di mobilitazione a tutto tondo. Siccome questa pratica molte volte è stata contrabbandata come una soluzione rispetto ai disastri già compiuti, non la ritengo più fattibile da sola.

È in corso la Cop26. Che aspettative ha, per questo appuntamento?

Per sua natura, non è che la Cop realizzi degli impegni concreti, questa è la storia. L’ultimo grande impegno concreto è stato quello di Parigi (dicembre 2015, ndr) purtroppo disatteso esattamente due mesi dopo con l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti d’America e successivamente quella di Jair Bolsonaro in Brasile (nel 2018). Il problema è che manca una governance sovranazionale, perciò sono abbastanza scettico: al momento opportuno, ogni Paese calibra le urgenze alle quali noi oggi siamo chiamati rispetto alle sue dinamiche produttive, economiche e finanziarie. L’azzeramento delle emissioni viene così prospettata nel 2050, nel 2060 o addirittura nel 2070. Si è andati troppo avanti, ragione per cui oggi ci aspettiamo il peggio. Nello stesso tempo, però, non esiste solo la volontà politica, esiste anche una società civile e produttiva la cui sensibilità sta crescendo. Affidiamoci a questo. Se i G20 escono dall’ultima riunione con una risoluzione che praticamente non dice niente, penso che nemmeno dal cappello della Cop26 uscirà qualcosa. Manca una presa di coscienza seria del fatto che questo disastro ormai è in essere, non è annunciato.

Una della voci della società civile emerse con più nitidezza è quella dei giovani, a partire dall’esperienza di Fridays for Future. Che cosa pensa di questi movimenti?

Guardo a questa generazione con la speranza che possa in questo momento di passaggio acquisire le conoscenza di buone pratiche da applicare appena entrerà nei posti di rilievo, perché la politica non ha ancora riconosciuto a questa generazione il diritto di essere protagonista di questa trasformazione, ed è un dato di fatto. Vedo che la sensibilità che loro hanno su queste tematiche li porterebbe ad essere soggetti molto più determinati dei loro padri. Ad oggi però i posti di comando sono occupati. Ecco perché in me prevale un atteggiamento e un sentimento di sconforto rispetto a come stanno andando le cose. Perché i G20 non si mettono d’accordo e gli assenti alla Cop26, la Cina e la Russia, equivalgono a un terzo di tutte le emissioni mondiali. Siamo in una drammatica situazione di default.

Tra i tanti temi in discussione alla Cop26, c’è anche quello della nostra dieta. Bisogna mangiare meno carne per salvare l’Amazzonia, dicono i movimenti brasiliani per la giustizia climatica.

Qualsiasi ipotesi di promuovere l’allevamento sul territorio amazzonico significa deforestazione, dopo la quale non c’è alcuna transizione verso verdi pascoli, ma un passaggio verso la desertificazione di un ecosistema fragile e così importante per l’umanità. Privilegiare una dieta fortemente carnivora, in questo momento, è un elemento da rifuggire, anzi da contrastare, rispetto alle tendenze che ci parlano di un aumento progressivo e costante in ogni parte del mondo. Se dico questo, parlo anche per la salute dei miei concittatini, visto che in Italia in 50 anni si è passati da un consumo pro capite di 45 chilogrammi di carne a 95, e questo non ha portato a una situazione di maggiore benessere, con molte complicazioni dal punto di vista sanitario. Il nodo è qui: non ce n’è bisogno di continuare con queste diete. Servono contrazione e convergenza: non possono chiedere di produrre e mangiare meno carne all’Africa subsahariana, dove se ne consumano 5 chili all’anno, ma agli Usa, che sono a «quota» 125 pro capite. Anche in questo ambito, però, il problema enorme è che non esiste, nemmeno su questi aspetti, una governance globale. António Guterres è il segretario generale delle Nazioni Unite ma a Glasgow si presenta come un anello debole: fa denunce, ma nessuno lo ascolta.