In Giappone, nell’anno scolastico iniziato in aprile, ma poi interrotto per il Covid-19 e successivamente ripreso a giugno, il cambiamento di cui più si è parlato è stata l’aggiunta dell’inglese come materia principale a partire dalla terza elementare ed il conseguente cambiamento del curriculum. Oltre a questa macromodofica però, ne esiste un’altra, forse meno discussa ma comunque significativa, riguardante la presenza in materie quali storia, geografia ed educazione civica della storia del popolo Ainu. La storia e lo studio della popolazione autoctona di certe zone dell’arcipelago era già in realtà presente nei vecchi testi scolastici, ma dal 2020 il numero delle pagine è stato aumentato. Si studiano così in questo anno scolastico usi e costumi del popolo Ainu, o almeno vengono accennate la musica, l’arte e il culto rituale, ed in certi testi inoltre si parla anche dell’ Upopoy, il nuovo museo nazionale Ainu, aperto proprio questa settimana a Shiraoi, in Hokkaido, l’isola più settentrionale del Giappone. Il museo doveva in realtà essere aperto già da un paio di mesi, ma la pandemia ne ha ritardato l’inaugurazione, al momento è operativo con un limite di entrate giornaliere e comunque con i contagi che stanno nuovamente aumentando nel paese, a Tokyo specialmente, viaggiare e frequentare luoghi pubblici (chiusi) sta diventando di nuovo problematico.

LA STORIA fra il Giappone e la popolazione Ainu, che per moltissimi secoli ha abitato l’isola di Hokkaido e quella Sachalin (Russia) ma che in tempi antichi probabilmente si muoveva lungo tutta la parte settentrionale dell’arcipelago, è una storia tragica. Culminata durante il periodo Meiji quando la politica assimilazionista dello stato giapponese discriminò tutte le minoranze etniche dispossessando le popolazioni che non venivano riconosciute come «giapponesi» delle loro terre, cultura, lingua e tradizioni. Per dare un esempio del trattamento che la cultura e la popolazione Ainu hanno ricevuto nell’arcipelago, basti ricordare che è solo nel 2008 che lo stato giapponese riconobbe gli Ainu come una popolazione indigena dotata della propria lingua, cultura e religione. L’apertura del museo non cambia di certo tutta la storia passata che ha portato quasi alla scomparsa della popolazione ed anche alla sparizione di molti dei dialetti che venivano parlati dai vari gruppi. Inoltre da molte parti è stata criticata come una mossa quasi pubblicitaria, fatta principalmente per attirare turisti, e sembra che per la costruzione e pianificazione del museo non sia stato coinvolto nessuno dei pochi Ainu rimasti.

RESTA il fatto però, che nelle librerie e nelle cartolibrerie giapponesi si sono viste un paio di riviste cartacee dedicate alla storia e alla cultura Ainu, magari superficiali, ma che indicano una copertura mediatica un po’ più ampia e che senza dubbio aiuteranno a ravvivare un certo interesse a chi non conosce troppo la questione, almeno questa è la speranza.
Per quel che riguarda la cultura visiva, visto che in questa rubrica si parla per lo più di cinema, è stato demoralizzante constatare che, a parte qualche documentario e alcuni esempi di lungometraggi come Kotan no kuchifue di Mikio Naruse del 1959, è il deserto più avvilente. Nel senso che gli Ainu e la loro cultura, o anche solo la loro presenza, sono praticamente assenti, non solo come tema principale ma anche come argomento secondario o appena sfiorato, dai moltissimi film ambientati in Hokkaido, spesso descritto nella cinematografia nipponica come frontiera o come terra del ritorno alla natura, ma rappresentato colpevolmente senza nessun legame con la popolazione indigena che per millenni l’ha abitato.

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