«Ho fede nel vostro ingegno futurista», scriveva il 31 luglio 1937 Filippo Tommaso Marinetti alla folignate Leandra Angelucci Cominazzini, ragazza ‘bene’ originaria del tifernate, caparbiamente convertitasi – sin dall’inizio del decennio – a spericolati esercizi d’aeropittura, di cui s’immaginano con gli iridati riflessi sui volti attoniti di vicini e familiari.
L’elogio espresso dal capo carismatico del movimento, in transito per l’Umbria negli anni venti del secolo, si carica oggi di un duplice valore, per chi voglia rappresentarsi l’arrivo del tonitruante messaggio all’indirizzo di una signora distinta quanto la Cominazzini. Certifica innanzitutto il prestigioso sostegno a una carriera di volenterosa debuttante, introdottasi sulla scena d’avanguardia da poco più di un lustro, dopo un cursus d’inventiva autodidatta, dedita assieme a paesaggi rovinosi, a grassi bouquet floreali e a stilizzati arredi citazionisti (venduti sotto l’insegna della bottega d’arte ‘Hispellum’); stabilisce poi, nel ricorso all’aggettivo invariabile – conseguenza fatale di ogni ‘ismo’ moderno – l’inclusività caratterizzante la pattuglia marinettiana, al tempo accampata su tutto il territorio nazionale, dalle metropoli industriali alle province placide, meno accese dal progresso tecnologico.
Certo, all’alba del Novecento, il matrimonio fra Futurismo e presenze femminili non s’era annunziato come un connubio idillico (l’ha insegnato, per prima, Claudia Salaris). Resta celebre l’infervorato botta-e-risposta fra manifesti antitetici, scritti dal fondatore e dall’amazzone combattiva Valentine de Saint-Point, spericolatasi a contestare il teorico rivoluzionario e il suo mal interpretato ‘disprezzo per le donne’ con una serie successiva di pubbliche dichiarazioni, diffuse fra il 1912 e l’anno seguente. Poi però aveva fatto la sua entrée nella brigata testosteronica, dedita a motori e a muscoli elastici, la filiforme, ancor giovane Benedetta (nata Cappa nella romana via Donizetti e subito presa a bottega in casa Balla); questa, pittrice in proprio e naturalmente anticonformista, avrebbe impalmato il maturo Marinetti, dopo uno scandaloso concubinaggio conclusosi nel ’23 con la borghese ufficializzazione del loro legame. Le cose, da quel momento, sarebbero radicalmente cambiate nella dialettica fra il gruppo e le aderenti via via più numerose: fin negli anni trenta espressero infatti fedi infervorate, apparendo in Biennali e Quadriennali al fianco dei compagni di lotta, profili come quelli di Regina, Marisa Mori, Barbara e Fides Testi (fra le altre).
In questo senso è assai significativo che la Cominazzini fosse un’habitué del salotto aperto dalla coppia al domicilio celebre di Piazza Adriana. Se di fatto le frequentazioni romane si accesero per lei negli anni convulsi della Prima Guerra, è certo a partire dal quarto decennio che le visite alla capitale sarebbero divenute maggiormente consapevoli. Le s’impressero così nella memoria (secondo i ricordi di un récit autobiografico, steso su consiglio di Giovanni Lista) lo studio di Benedetta con pareti giallo-azzurre, i mobili orientali, assieme al vanto orgoglioso di aver riconosciuto in quelle stanze alcune fra le proprie creazioni, soprattutto un arazzo bianco-nero andato disperso ma di cui ora – a Foligno, negli spazi di Palazzo Trinci – si ammira un bozzetto inedito.
Non è questo l’unico affondo riuscito della mostra curiosa che la città dedica, fino al 24 gennaio, alla ‘sua’ futurista onirica: l’avvio di percorso colpisce nel segno, accostando l’abito da sposa della Cominazzini (fedele fino all’ultimo alla firma dei propri quadri col cognome del marito, Ottorino Angelucci) e il ritratto ‘ufficialissimo’ che Gerardo Dottori – guida dell’aeropittura umbra – avrebbe consacrato a Marinetti, in posa accanto alla moglie e alle figlie frugolette, battezzate Ala, Vittoria e Luce.
L’evocazione di Dottori è, del resto, assai pertinente in una monografica intesa per rileggere la parabola dell’artista. Avendone mancato la frequentazione nelle aule dell’Accademia perugina – la giovane seguì una più tradizionale educazione da maestra – l’incontro con il collega già noto ne avrebbe comunque segnato le scelte formali: non è un caso che le sue prime prove ‘avanguardiste’ si indirizzino a una figurazione ‘in volo’ del paesaggio, ambito nel quale l’uomo si era ritagliato un ruolo d’apripista.
In realtà non sappiamo neanche se la Cominazzini mise mai piede su un velivolo. Lo nega Mirella Bentivoglio, nonostante che Foligno fosse servita da uno scalo funzionante; tuttavia il catalogo della mostra si dimostra aggiornato nell’allineare filologicamente simili risultati col linguaggio del secondo futurismo, citando a confronto le prove di Prampolini e Fillia per spiegare gli esiti spiritualisti della tifernate.
Non serve, semmai, la costruzione di un’antologica a tal punto estensiva: è l’accumulo di creazioni non sempre efficaci a infiacchire l’indiscutibile valenza culturale del catalogo della pittrice, menzionata in indagini apripista nel campo dei women studies: Simona Weller (1976), Lea Vergine (1980). Una selezione quintessenziata, magari nutrita da accostamenti eloquenti, avrebbe forse meglio restituito alla Cominazzini la fama di «geniale aeropittrice futurista», titolo che lo stesso Marinetti aveva voluto riconoscerle in un secondo messaggio, indirizzato di nuovo al bel villino déco in cui la donna aveva scelto di vivere, nella quiete della provincia.