Aspetta una telefonata per partire per Cuba, Giancarlo Ceraudo (Roma 1969). Ma è più probabile che andrà a Barcellona per le manifestazioni post referendum per l’indipendenza catalana. Però il 27 e 28 ottobre sarà a Lodi per l’8/a edizione del Festival della Fotografia Etica, rassegna organizzata da Alberto Prina e Aldo Mendichi con il Gruppo Fotografico Progetto Immagine (fino al 29 ottobre), per presentare il libro Destino Final (Schilt, 2017) insieme alla giornalista argentina Miriam Lewin.

Dell’inchiesta fotografica, la prima sui «voli della morte», è esposta anche una selezione di immagini, tutte in bianco e nero. «Il colore è scorbutico – afferma il fotografo – È meno educato del bianco e nero che, in questo caso, mi ha dato lo spazio senza tempo di cui avevo bisogno».

Una storia iniziata nel 2002 e ancora aperta, almeno per quanto riguarda il percorso della giustizia. A livello fotografico si è conclusa con la pubblicazione del libro (curato da Arianna Rinaldo) a cui hanno contribuito Miriam Lewin, il giornalista Horacio Verbitsky, il giudice Baltasar Garzón Real, l’ex pilota Enrique Piñeyro (anche medico, attore, regista e produttore cinematografico) e l’antropologo Carlos ‘Maco’ Somigliana.

Il passato celato fino a quando le ricerche del team Ceraudo-Lewin hanno portato all’identificazione degli aerei (incluso lo Skyvan PA-51 ritrovato a Fort Lauderdale, Florida) e dei piani di volo, è quello che si colloca negli anni 1976-1981, quando la giunta militare argentina fece sparire migliaia di giovanissimi oppositori, per lo più studenti, caricandoli narcotizzati su aerei che li sganciavano vivi nell’Oceano Atlantico. Migliaia di desaparecidos.

«Il percorso della giustizia non è una cosa che mi riguarda, ma lo rispetto. Ho la mia idea e il ragionamento è semplice. Ci sono stati i voli della morte? Sì. L’hanno fatto con gli aerei? Sì. Quanti aerei avevano? Cinque? Sì. Quanti piloti c’erano? Venti? Sì. Qualcuno di questi venti piloti ci sarà stato, o no? Sui fogli dei piani di volo ci sono tutti i nomi. Quei venti nomi. Sono ragionamenti che però, giustamente, si devono provare perché altrimenti sarebbe una giungla».

Quando un lavoro va avanti per quindici anni, come «Destino Final», diventa anche un limite rispetto alla realizzazione di altri progetti?

No, si è sviluppato parallelamente al mio percorso di fotografo. La fotografia è qualcosa che racconta la contemporaneità. È più dinamica. Questo, che è stato per certi versi anche frustrante, è più un lavoro di pittura. Non per la qualità delle immagini, per i tempi. È un lavoro meno professionale, nel senso che poi è diventato un pezzo di vita in cui ho messo le mie relazioni, le mie cose. Anche economicamente per portarlo avanti l’ho dovuto svincolare dalla logica del guadagno. Ma la cosa bella è stata il coinvolgimento delle persone. Per due terzi, tutta la parte che riguarda l’inchiesta, è stato condiviso con Miriam, è un lavoro collettivo.

Quali sono state le difficoltà maggiori nel narrare questo pezzo di storia?

Ho considerato spesso questo lavoro il figlio di un dio minore per poi, invece, accettarne anche la bellezza estetica. La mia fotografia è molto estetica e anche cinematografica. Penso che qui sia entrata una parte di me che non ha nulla a che vedere con la fotografia.

Probabilmente proprio perché sono nato a Roma – da piccolo guardavo il Colosseo e pensavo che mi sarebbe piaciuto trasformarmi in una pietra per vivere all’infinito e vedere le persone – sono abituato ad avere una relazione con la materia, che è qualcosa che ha un’anima.

Lo dicono anche gli architetti che nella materia ci sono delle tracce e queste danno indicazioni che possono portare a una verità nascosta. La macchina fotografica mi ha consentito di fare questa riflessione. Se avessi osservato in maniera fissa la materia sarei sembrato un pazzo, invece la fotografia mi ha dato una giustificazione per osservare.

E dal punto di vista emotivo, cosa può dire del progetto?

L’aspetto del mio carattere un po’ dissacrante mi ha consentito di surfare su questa storia, girarci intorno, camminarci. Sono storie molto più grandi di me e se si comincia a pensare di esserne protagonista, prenderle, dominarle e controllarle, non solo non ci si riesce ma ci si fa male.

Ho imparato molto dalle persone, soprattutto da Miriam che pur essendo giornalista d’inchiesta, prima di questa storia non aveva fatto nulla che riguardasse la dittatura e la sua vita. Lei è una sopravvissuta. La fotografia è stata anche un grande canale di scarico che ha reso la storia maneggiabile.

Cosa l’ha portata a indagare sui «voli della morte»?

Nel 2001 ero andato in Argentina per vedere quello che stava succedendo con la crisi economica. Dal punto di vista storico, poi, ho sempre avuto una passione per la seconda guerra mondiale, soprattutto per la questione del Terzo Reich e il nazismo. Trovavo assurdo che, a un certo punto, un popolo intero partecipasse a un genocidio. Persone normali, perché non potevano avere tutti la mente criminale, vi aderissero o, comunque, di fatto ne fossero partecipi. Allora avevo 17, 18 anni.

Quindici anni dopo, forse anche per via degli studi di antropologia che non ho mai concluso, mi resi conto delle dittature in Sudamerica. Vedevo le foto di personaggi che somigliavano molto ai nazisti. C’era anche la storia della fuga dei gerarchi di Hitler in Argentina, per cui tutto s’intrecciava. L’idea, in particolare, mi è venuta quando vidi il film Garage Olimpo (1999) che, al di là della bellezza, è uno dei pochi film e anche il più importante sulla dittatura argentina ad essere entrato nella percezione comune di tutti.

Questo film si riallaccia anche a una mia esperienza personale riguardo gli aerei. Da piccolo, mio padre mi portava all’aeroporto dell’Urbe, per me l’aereo era il viaggio. Mio fratello, poi, da grande voleva fare il pilota e aveva tanti modellini. Nel film mi colpì la vicenda degli aerei della morte. A differenza di tutto ciò che avevo studiato da più giovane, questa era ancora viva. I protagonisti stessi erano ancora vivi, così ho pensato di essere in una fetta di storia dove potevo vedere qualcosa.

Sono accadute cose assurde durante il percorso. Cose che sembravano scritte in una sceneggiatura. Ogni volta che mi staccavo c’era qualcosa che mi riprendeva e mi reimmergeva dentro quel mondo.

Può raccontarci qualcosa che le è successo durante il lavoro di «Destino final»?

Uno degli aneddoti di questa storia è che in Garage Olimpo un personaggio che avevo bene in mente era quello di «el Tigre» (Jorge Eduardo Acosta), capo del centro di detenzione da cui partivano i voli della morte che nell’ultima scena del film mette i detenuti sull’aereo, interpretato da Miriam. Un attore che avevo visto pure in Alambrado, il primo film di Marco Bechis.

Quando, poi, con l’idea di cercare gli aerei, seguendo tutto un mio ragionamento aeronautico, incontrai Joe Goldman giornalista di Abc News – era stato uno dei pochi ad aver fatto reportage in cui aveva intervistato el Triga Acosta quando era ancora libero – e gli raccontai il mio obiettivo, mi disse che nessuno ci aveva mai pensato e che avrei dovuto parlare proprio con Piñeyro che era stato pilota. Casualmente, proprio il giorno prima ero andato a vedere il film Whiskey Romeo Zulu (la sigla di un aereo), dove recitava anche lui. Lui era super famoso, non credevo mi potesse dare credito. Invece, quando lo chiamai fu molto tranquillo.

Quando ci vedemmo confermò le mie supposizioni. La parte fondamentale è stata proprio studiare i piani di volo insieme a Enrique. Lui è stato anche molto disponibile quando, a distanza di tempo con Carlos ‘Maco’ Somigliana e Miriam Lewin si è deciso che la denuncia dovesse essere fatta da due personaggi importanti. Uno è Enrique Piñeyro, noto personaggio pubblico, e l’altro Pérez Esquivel, vincitore del Premio Nobel per la Pace.