John Ruskin disse sicuramente una cosa avventata quando affermò che copiare è spregevole perché è facile. Una decisa smentita, posto che fosse necessaria, viene da una mostra in corso all’Istituto Italiano di Cultura di Copenaghen (ma attualmente chiusa per l’emergenza Covid 19), intitolata L’arte di copiare.
L’evento è frutto di una sinergia con l’Istituto Svedese di Studi Classici di Roma e con la Ny Carlsberg Glyptotek, il grande museo della capitale danese. I venticinque acquerelli esposti giustificano pienamente il titolo. Si tratta di copie tanto fedeli quanto esteticamente pregevoli di pitture che decorano le pareti di tombe etrusche – in gran parte di Tarquinia, ma anche di Chiusi, Orvieto e Veio – datate tra il VII e il III secolo a.C.
L’idea di fare eseguire le copie di tutti i resti della pittura etrusca allora noti venne nel 1897 al collezionista d’arte Carl Jacobsen, fondatore della Ny Carlsberg Glyptotek. Jacobsen era il produttore della birra Carlsberg, tutt’oggi famosa, e poté investire nel progetto ingenti somme. Ad assistere l’originale mecenate in questa impresa fu un personaggio non meno singolare, l’archeologo tedesco Wolfgang Helbig, che risiedeva a Roma. Helbig era stato vicesegretario dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica (precursore dell’attuale Istituto Archeologico Germanico di Roma), e oltre ad essere un notevole studioso, aveva una fitta rete di rapporti con antiquari e collezionisti, e operava – a volte abbastanza spregiudicatamente – come mediatore negli acquisti dei grandi musei europei. Il suo nome è legato alla famosa fibula prenestina, una spilla in oro con incisa la più antica iscrizione in lingua latina (metà del VII secolo a.C.), della quale Helbig entrò in possesso in circostanze poco chiare. Nel 1980 Margherita Guarducci, famosa epigrafista, accusò Helbig di avere fatto incidere egli stesso l’iscrizione, ma un’indagine eseguita nel 2011 con sofisticate strumentazioni sembra avere mostrato l’infondatezza di questa accusa.
Helbig, che in quanto ispettore onorario del territorio di Corneto-Tarquinia aveva libero accesso alle tombe dipinte, si avvalse dell’opera del pittore romano Alessandro Morani (1859-1941), docente presso il Museo Artistico Industriale di Roma e artista apprezzato anche da D’Annunzio, che gli affidò le scenografie di alcune sue opere teatrali, e da Giacomo Boni, che lo chiamò a decorare Villa Blanc, da lui progettata.
Morani, che era anche il genero di Helbig, avendone sposato la figlia Lili, con alcuni collaboratori di talento (Oreste Marozzi, Oscar Mancinelli, i fratelli Antonio e Giuseppe Mungo) realizzò tra il 1897 e il 1910 oltre 400 lucidi e 166 acquerelli di tombe etrusche dipinte. Erano i materiali preparatòri per le copie in scala 1:1 destinate alla sezione etrusca della Ny Carlsberg Glyptotek, che Jacobsen chiamava Museo Helbig, in onore del suo consigliere. Dopo la morte del Morani, Lili Helbig offrì la collezione all’Istituto Archeologico Germanico, ma la transazione non andò in porto. Ad acquistarla fu invece l’Istituto Svedese di Studi Classici di Roma, nel 1945, a un prezzo decisamente inferiore. Probabilmente pesò nell’atteggiamento della vedova la volontà di mettere al riparo la collezione dai rischi della guerra (la Svezia era uno stato neutrale e l’Istituto Svedese fu uno dei pochi istituti stranieri a rimanere aperti a Roma).
A lungo dimenticata, la collezione fu riscoperta soltanto nel 1987. Da allora essa è stata oggetto di attenti studi, una sintesi dei quali è offerta dal volume a cura di Astrid Capoferro e Stefania Renzetti, L’Etruria di Alessandro Morani. Riproduzioni di pitture etrusche dalle collezioni dell’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma (Edizioni Polistampa 2017). Sul sito web dell’Istituto Svedese (http://isv.digitalcollection.org/morani-acquarelli-lucidi) è possibile reperire le immagini digitalizzate di tutti i 166 acquerelli, tra i quali sono stati selezionati i venticinque esposti a Copenaghen .
Altri diciassette acquerelli sono esposti permanentemente, grazie a un accordo fra l’Istituto Svedese e la Soprintendenza archeologica per l’Etruria Meridionale, nel Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia, nella sala che ospita gli originali delle pitture distaccate dalle tombe negli anni cinquanta del secolo scorso.
Il valore documentario delle riproduzioni è enorme, perché esse restituiscono le pitture con fedeltà fotografica (specialmente per quanto riguarda il colore), senza integrazioni o idealizzazioni, e oggi che in molti casi quelle pitture sono deteriorate o illeggibili, costituiscono uno strumento di lavoro preziosissimo. Dobbiamo essere grati a quei meticolosi copisti anche per l’umiltà con la quale hanno svolto il proprio lavoro, senza mai lasciare che il loro stile si sovrapponesse a quello dei pittori che copiavano.
Come dice il grande Totò nel film di Steno Eva e il pennello proibito, «tutti siamo capaci a creare, è copiare che è difficile».