Quando un libro di poesie ha la potenza di diventare progetto etico e sociale, significa che ciò che è stato messo in circolo è altrettanto potente. È questo che è successo intorno alla prima traduzione italiana del libro di Aino Suhola, poeta e figura di spicco della cultura finlandese.

Rakasta minut vahvaksi (Atena, Jyväskylä 1991), divenuto ben presto un vero e proprio best seller finnico, esce per la prima volta in Italia con il titolo Amami per rendermi forte, a cura di Viviana Scarinci, con la traduzione di Hanna Suni e grazie alla lungimiranza di Chiara Turozzi, editrice de L’Iguana (pp. 158, euro 16).

Per la prima volta, verrà presentato questa sera a Torino alle 19 presso Palazzo Capris con il patrocinio dell’Ambasciata finlandese di Roma e la Commissione europea di cultura nel corso dell’evento «Mi abito di nuovo. Due realtà italo-finlandesi al femminile», organizzato dall’associazione Minuksi, nell’ambito della manifestazione «Terzo Paradiso – Rebirth day».

Il realismo asciutto di Aino Suhola, donna poliedrica e dagli interessi versatili, ha conquistato migliaia di lettori e lettrici e non è difficile immaginarne la ragione.

I temi toccati in Amami per rendermi forte confermano infatti l’enorme risorsa insita nella lingua poetica quando, libera da orpelli e leziosità, punta dritta all’osso. Non per fare apparire ciò che ci circonda più scarno di quel che è, al contrario per sottolinearne la forza politica ed etica della nominazione. Suhola si immerge nelle trame del dolore sociale con una partecipazione secca, decisa e affatto pietistica.

Le esperienze, tutte raccontate attraverso la moltiplicazione di sé, consentono l’osservazione da numerosi punti di vista che la poeta ha sperimentato specialmente durante la sua attività giornalistica e politica. Sono gli sguardi scomodi e dimenticati che le interessano, quelli di chi ha poco da perdere. Dal bullismo alle dipendenze, fino a passare per la depressione, sono molti i modi dell’incuria rintracciati dalla poeta. Ciò che sembra non consentire seconde possibilità, per Suhola non indulge a cinismi esasperati né a logiche lamentevoli. Tutt’altro.

A essere tracciata con sapienza è invece una mappa degli abissi, altrettanti luoghi emotivi e sociali della deprivazione. Qui, in fondo, l’amore diventa l’ospite indesiderato di una società ingrata che invece la poesia chiama a sé come ultima e necessaria possibilità relazionale. La poeta tuttavia non emette sentenze né si sente investita di qualche missione salvifica ed è per questo che risuona autentica. Indossa invece gli abiti di chi, per osservare con gli occhi dell’altro, sa contattare la parte più vulnerabile di sé riuscendo a farsene carico, con lingua risoluta e senza sconti; quella del lutto e della mancanza che poi si concretano in una vita spesso dotata di uno straordinario disamore. Quest’ultimo ricevuto e poi inferto.

Nell’esortazione del titolo la poeta confessa ciò che invertirebbe la tendenza di questa contemporaneità così sfilacciata e mostruosa, dove la solitudine si scalfisce con la responsabilità dell’agire. Nella bella intervista che Viviana Scarinci le fa, disponibile in apertura al volume, è proprio Suhola che precisa: «Sono capace di accusare, perché sono stufa dell’immagine creata dal mercato. Accuso come fanno quelli che sono stati abbandonati in mezzo al mercato, buttati nel fiume senza salvagente per vedere se sanno nuotare. Ma ho miseramente fallito se l’accusa rimane in superficie e la grazia annega, perché credo nella grazia molto più che nell’accusa».

Vengono in mente le atmosfere malinconiche e livide dei film di Aki Kaurismaki, con quelle figure affascinanti e triturate da una disaffezione pervasiva. Si pensi solo a La fiammiferaia (Tulitikkutehtaan tyttö, 1990) o alla trasposizione – misconosciuta in Italia – di Delitto e castigo (Rikos ja rangaistus, 1989).

Eppure per Suhola l’atmosfera di assuefazione alla perdita non è definitiva. Si reagisce con forza e attiva determinazione nel dire no, trovando la misura appropriata nel catalogo teratologico della contemporaneità. E se il profitto selvaggio è lo sfondo in cui si agitano i suoi protagonisti, c’è un abitare delle creature piccole che forse può venirci in soccorso. Una semplicità nel riferirsi all’altro, nel dire io ti vedo. E desidererei che mi vedessi anche tu. Certo che ci sono cose inoppugnabili che si sono strutturate nel malessere diffuso, capace di accomunare gli esseri viventi ad ogni latitudine, ed è infatti per questo che il libro di Aino Suhola risuona di grandezza. Perché agisce a un livello profondo di riconoscimento collettivo e insieme consegna una quotidianità singolare di donne e uomini che sanno di aver perso lucidità. Saperlo è ciò che può invertire la rotta. Il pericolo può farsi stringente quando queste esperienze, che sono altrettanti quadri nelle tre sezioni di cui si compone il volume, assumono i tratti del limite invalicabile.

È nell’incontro tardivo con l’altro e l’altra che si consuma l’effettivo disastro. Nel non considerare la mancata sazietà dell’esistere come possibilità di un progetto etico di relazioni. Non solo tra esseri umani ma anche nel confronto con il lavoro, la natura, la morte e lo stesso scacco che connota la fragilità.

Declinare la forza raccontando le debolezze che marcano l’ordine sociale è il traguardo di Amami per rendermi forte. Ma è anche un orizzonte di cura tra i più scottanti che si offrano alla comprensione, poetica e non: far nascere un desiderio di condivisione dell’inemendabile che riesca a toccare fino allo strappo del sé.

Lo riferisce bene la stessa poeta, come una Cassandra in piena rivolta: «Dall’alba al tramonto ci trasciniamo per guadagnare approvazione. Consumiamo m>erce e persone, ci sorpassiamo senza vederci anche se in realtà avremmo bisogno di incontrarci, di essere presenti gli uni agli altri, e per questo apriamo le braccia per ricevere amore. Molti pensano che parlo d’amore perché ne ho ricevuto tanto. Ne parlo perché solo un assetato sa parlare dell’acqua».