Quando nel 1937 il tassista italiano Peter Robert Gagliardi apre una palestra di pugilato nel Bronx di certo non immagina che a distanza di 80 anni quel luogo avrebbe contribuito a formare 134 campioni del mondo. Spesso le palestre di boxe racchiudono tra le loro mura storie di vita tormentate e travolgenti ma quando si parla della Gleason’s Gym si è già entrati nella leggenda.

Non c’è pugile che non la conosca o che non vorrebbe fare i guanti sui suoi ring. Jake LaMotta, Roberto Duran, Iran Barkley, Vito Antuofermo, Arturo Gatti, Muhammad Ali, Mike Tyson sono solo alcuni dei campioni che si sono allenati qui.

«Sul finire degli anni ’30 gli italiani non erano visti di buon occhio per via della loro posizione nella guerra, poi c’era la rivalità con gli irlandesi. Per questo motivo Gagliardi decise di cambiare il suo nome in Gleason, prendendo spunto da un suo pugile che si chiamava così. Il nome della palestra diventò Bobby Gleason Gym». Bruce Silverglade, attuale proprietario e memoria storica di questo tempio della boxe, mi racconta che «la palestra diventò subito molto popolare, lì si allenava gente come Phil Terranova e LaMotta», il Toro del Bronx.

All’epoca c’erano un solo ring al centro, quattro sacchi pesanti, sei sacchi veloci, spazio per gli esercizi di fronte agli specchi e due file di sedie per gli spettatori. L’odore acre inconfondibile del sudore e del cuoio, ieri come oggi. I ragazzi pagavano 2 dollari al mese.

Nel 1974 Gleason decide di trasferirsi a Manhattan; qui Scorsese sceglie di girare Toro Scatenato con De Niro nel ruolo di LaMotta. Nel 1984 la palestra si sposta a Brooklyn; a dicembre 2016 l’ultimo trasferimento sotto il Manhattan Bridge, a pochi passi dallo scorcio che Sergio Leone immortala nella locandina di C’era una volta in America.

Incontro Silverglade nel suo ufficio in palestra, tappezzato di fotografie autografate e di immagini ingiallite di incontri memorabili. Rimango ad osservarle e a respirare l’atmosfera.

Mi racconta di come abbia ereditato la passione per la boxe da suo padre e di come sia diventato socio della Gleason nel 1983.

Cosa trova un pugile qui?

Gli atleti possono allenarsi con il loro personal trainer ma anche con gli altri allenatori che sono qui. Chiunque può entrare, vedere tanti campioni allenarsi e osservare differenti stili di boxe. Questo attira le persone. Teniamo molto a questo aspetto perché non si può imitare quello che vedi alla Gleason in nessun’altra parte del mondo. Al momento ho sei campioni del mondo e la tradizione dei buoni pugili sta andando avanti. Recentemente anche il campione dei pesi piuma Floriano Pagliara, protagonista del documentario Waiting di Cristian Piazza sulla nuova emigrazione italiana a New York, si è allenato alla Gleason.

Come se la passa la boxe americana oggi?

Abbiamo degli ottimi pugili ma divisi in troppe categorie. La popolarità della boxe comunque non è mai stata così alta. La mia palestra è un esempio, quando l’ho acquistata si allenavano qui solo pugili professionisti e dilettanti e uno o due uomini d’affari. Oggi l’80/85% delle persone sono donne, bambini, impiegati.

C’è il rischio che la Gleason diventi troppo famosa e perda la sua identità?

Mi piace essere famoso e voglio che la palestra continui ad esserlo. Sto per aprire una sede anche a Roma. Siamo un punto di riferimento e vogliamo andare avanti.

Qual è il combattimento più appassionante che tu abbia mai visto?

Impossibile citarne solo uno. Barkley contro Duran e Duran contro Leonard sono stati combattimenti sensazionali. Arturo Gatti ha fatto tre incontri pazzeschi contro Micky Ward. Il combattimento ideale che ho sempre immaginato sarebbe tra due pugili della Gleason: Roberto Duran contro Carlos Ortiz.

La boxe è ancora un modo per uscire da condizioni sociali difficili?

Certo, la boxe tradizionalmente è la palestra delle classi sociali ed economiche più povere. Penso ai tanti immigrati che arrivano, ci vuole tempo per integrarsi nella società, per ottenere un lavoro, per avere l’istruzione di cui si ha bisogno. Perciò, appena arrivati, la boxe rappresenta un modo di guadagnare soldi e di farsi largo nella società. È uno sport per persone dure, non posso dire più per uomini duri perché oggi moltissime donne sono nel mondo della boxe e competono. Le donne dominano questo sport quanto gli uomini. Attualmente un terzo dei miei iscritti sono donne, compresi i sei campioni di cui ti ho parlato. Al momento gli ispanici stanno dominando questo sport, hanno sostituito gli afro-americani. Ora stanno arrivando molti europei dell’est che vogliono farsi strada e andare al college; praticano la boxe per crearsi un’identità attraverso lo sport. Vedrai sempre le minoranze nella boxe.
Nella stanza accanto incontro un’altra leggenda vivente, Hector Roca, allenatore di 20 campioni del mondo di pugilato: «Ho anche partecipato a 16 film e allenato Russel Crowe, Jennifer Lopez e altri attori», tiene a precisare con uno spiccato accento ispanico.

Qual è il segreto?

Non credo nella potenza, credo nella tecnica e nelle basi di questo sport. Mi piace allenare chiunque, non solo i pugili.
Roca è un tipo di poche parole; originario di Panama ed ex ciclista olimpico.

Quanto è cambiata la boxe in questi anni?

Molto, è peggiorata. Non ci sono buoni pugili negli Stati Uniti, ora i più bravi arrivano dall’Europa. Negli anni ’60 non si pensava ai film, si combatteva. Oggi il pugilato è come la danza e il balletto e alla gente piace. Prima c’era più sofferenza. I pugili migliori vengono dalla strada. Il problema è che quando cambiano la loro vita e raggiungono un buon livello economico, dimenticano da dove sono venuti, spendono soldi in feste e si trovano di nuovo a non avere niente.
Propongo a Roca una sequenza di domande rapide. Qual è il pugile più veloce che hai allenato? «Buddy McGirt». Il più forte? «Arturo Gatti». Il più pazzo? «Macho Camacho». Il più talentuoso? «McGirt e Regilio Tuur». Il miglior incassatore? «Iran Barkley». Il più intelligente? «McGirt». Quello che ti ha impressionato di più? «In passato Gatti, oggi Carlos Adames, un ragazzo di 22 anni che ha vinto 11 combattimenti ed è al terzo posto nel ranking mondiale. Il prossimo mese combatterà per il titolo mondiale».

Hai allenato Hilary Swank per il film The Million Dollar Baby con il quale ha vinto l’Oscar?

Sì, Hilary ha molto talento, è atletica ma molto magra. Quando è venuta da me le ho detto che non sembrava un pugile. È stato facile perché mi ascoltava; le ho fatto sviluppare i muscoli e prendere un po’ di peso. Prima dell’allenamento pesava 112 pounds, per il film è arrivata a 127 pounds. Ha fatto la sua parte, ci si è dedicata come un pugile, non come un’attrice.

Qual è stato il momento più intenso della tua carriera di allenatore?

Quando ho vinto il primo titolo mondiale con Barkley, mi ha aperto le porte per allenare altri campioni. Ho formato campioni in tutto il mondo e di questo sono felice.
Prima di congedarmi saluto Roca che mi sorride dal ring mentre allena un bambino di 8 anni.