Quando, nel 2005, l’editore Casagrande di Bellinzona diede alle stampe Gli occhi di mia madre di Friedrich Glauser (1896-1938), scrivendone proprio su queste stesse colonne, notammo ancora una volta come risulti sorprendente, ogniqualvolta capiti di passeggiare sul verde smalto dei ben curati giardini letterari della Svizzera di lingua tedesca, scorgere la qualità e l’intensità dell’antagonismo e dell’alterità, così radicali e irriducibili, dei suoi scrittori. Essi, pur piantati in quel terreno concimato a puntino, ai bordi di quei lindi viali, si mostrano allo sguardo in fattezze deformi, sbilenche, sghembe. Rami storti, frutto di una misteriosa alchimia della natura, lì catapultati a mostrare il miracolo della disarmonia. Nemmeno, essi, si accordano con quel paesaggio morale, da cui peraltro succhiano linfa e vitale sostanza. Nulla pare umiliare questi scrittori quanto il richiamo all’ordine e alla decenza anche stllistica. Chiedono di stare nel mondo per poterlo contrastare. E, a proposito di Friedrich Glauser, bene ha fatto Peter Bichsel a domandarsi se Walser l’avesse letto e cosa mai ne pensasse e, insieme e oppure, se Glauser «ha letto Walser, o se quando scrive gli somiglia tanto per caso o per destino», in specie per quel suo «silenzio poetico – sempre a un passo dal pianto e sempre a un passo dal riso».
Ora, se sono indiscutibili le differenze tra i due e innanzitutto i loro rispettivi pesi specifici, la suggestione di Bichsel aiuta almeno a rendere più credibile o meno cervellotico il paesaggio sotto forma vegetale che all’inizio si è provato a descrivere. Nel frattempo l’occasione per tornare a Glauser ci viene offerta dalla ristampa (a ventotto anni dalla prima edizione Sellerio), nella medesima versione sebbene riveduta e con l’aggiunta di un significativo capitolo intitolato «Sul fondo», di Dada, Ascona e altri ricordi (Casagrande, traduzione di Gabriella de’ Grandi, postfazione di Christa Baumberger, pp. 133, euro 18, 00), un volume di narrazioni composte tra il 1930 e il 1933, tutte rigorosamente autobiografiche come d’altronde tutta l’opera (se si esclude la serie poliziesca che ha per protagonista il sergente Studer) di questo scrittore che definire irregolare sarebbe riduttivo, trattandosi piuttosto di un deragliato, quasi di un suicidato dalla società e innanzitutto dall’esimio e religiosissimo padre professore che finché fu in vita (ma prima di morire si affrettò a proibirgli di partecipare al funerale) lo perseguitò con ogni mezzo col supporto delle leggi.
Ricordiamolo: Glauser, in un’esistenza lunga appena quarantadue anni, tra riformatorio, prigioni, case di cura per malati mentali, cliniche per disintossicarsi dalla morfina e veri e propri manicomi, rimase recluso per oltre dieci, senza contare i tre (dal 1921 al 1923) trascorsi in Algeria e in Marocco, nella legione Straniera – e, a tale proposito, si rimanda a due libri di memorie: Gourrama, dal nome della località dove era di stanza il suo reggimento, e Morfina, sulla sua disperata dipendenza dalla droga. Fece tanti mestieri, dall’aiuto giardiniere al minatore in Belgio (a Charleroi), dal lavapiatti a Parigi al ladro dove capitava. Al pari di Antonin Artaud, detestò e maledisse gli psichiatri e la psichiatria del suo tempo.
Non è di secondaria importanza sottolineare come il furore paterno esplode in massimo grado e fino all’interdizione legale quando Friedrich, nel 1916, a Zurigo, si mette a frequentare Tristan Tzara, la di lui consorte Emmy Hennings, attrice e cantante, Hugo Ball, il Cabaret Voltaire e, insomma, il cafarnao dadaista nel momento del suo rumoroso fulgore. L’incontro, a onore del vero, non fu precisamente cercato. Glauser si trovava nello studio di Mopp, al secolo Max Oppenheimer, e osservava con estremo interesse il pittore viennese impegnato nella rifinitura di un ritratto di Ferruccio Busoni. A un certo punto venne annunciata la visita di un esponente della «nuova arte». «Mi viene presentato», ricorda lo scrittore, «un omino dalla fronte alta e la parte inferiore del volto come compressa, Pince-nez di corno, rughe da impiccione ai lati del naso: “Il poeta Tristan Tzara”».
L’ospite inatteso, accompagnato dal pittore Marcel Janco, evidentemente non gode della simpatia di Glauser, il quale tuttavia non si sottrae, qualche giorno dopo, alla preghiera del poeta di accompagnarlo a una visita medica, davanti alla commissione militare, dalla quale dipendeva la sua partenza per la leva obbligatoria. Tzara, ammette il suo complice, recita la sua parte di finto demente alla perfezione. Ma la descrizione che ne esce è cruda, impietosa: «Lasciava pendere il mento e faceva gocciolare delicati fili di bava sulla cravatta storta, che io gli asciugavo con cura. Prima di uscire si volta verso la commissione e grida “Merde” e “Dada”».
Glauser non amava le messe in scena e la clownerie e inoltre non provava alcun interesse per le poetiche. Dunque, a conti fatti, non amò mai i dadaisti e non fraternizzò più di tanto col gruppo. In maniera trasversale egli stesso ce ne spega le ragioni nel commovente elogio a Hugo Ball, laddove ricorda come fosse «uno di quegli uomini rari che non conoscono vanità né affettazione. Lui non recitava, lui era». Per poi aggiungere: «Le fiaccole non sono ancora tutte spente, si penserà leggendo le sue vite dei santi» (il riferimento è al meraviglioso Cristianesimo bizantino che Adelphi ha pubblicato nel 2015). Ugualmente, lasciata Zurigo per il Ticino, Glauser non trovò quello che cercava nemmeno ad Ascona, nel mistico, esoterico Monte Verità, dove restò per circa un anno. «La fiera dello spirito», definisce quel luogo, e «donne astrali» le discepole di Rudolf Steiner, descrivendole «avvolte in lunghe vesti fluttuanti», intente a marciare avanti e indietro, nella grande sala rivestita di legno, «con goffi gesti in un quadrato lasciato libero dagli spettatori. Una delle due era alta e magra, l’altra bassa e tigliosa. Con le palme delle mani fendevano l’aria al ritmo dei vogatori, e le loro voci declamavano versi di Goethe in un recitativo monotono».
Pare al lettore, in queste pagine, tutto un disastro comico e anzi grottesco. Un teatrino nevrotico e senza centro. Pure, e Glauser lo ricorda in più punti del libro, è la sua generazione a non avere centro, a non riconoscere appigli certi e sicuri. Al punto – lui mai sentimentale e nostalgico – da confessare una sorta di dolorosa invidia per la generazione precedente alla sua, quando orientarsi sembrava più facile e meno costoso. Se non fosse morto così presto (a Nervi, per un ictus) nel 1938, forse avrebbe capito e saputo da che parte stare.