Qualche anno fa, l’esilarante film francese «Louise-Michel» proponeva la storia di un gruppo di operaie, che, ritrovatesi dalla sera alla mattina con la fabbrica svuotata e delocalizzata, decidono di usare la liquidazione per assoldare un killer che uccida il padrone. Louise, la più determinata, ingaggia il bizzarro Michel, col quale intraprende un viaggio alla ricerca del datore di lavoro, dando vita ad una trama grottesca, nella quale i due passano il tempo ad ammazzare persone, scoprendo ogni volta di non aver ucciso il vero capo della loro azienda, nascosto dentro un dedalo inestricabile di acquisizioni proprietarie e fondi finanziari.

Pochi anni dopo, la satira diventa neorealismo con la vicenda dell’azienda Gkn di Firenze, i cui 500 lavoratori, lo scorso luglio, hanno ricevuto il preavviso di licenziamento con una email notturna. I lavoratori hanno occupato la fabbrica e chiamato città, territorio e società a insorgere con loro.

Chi è la loro controparte in questa lotta?

Gkn è una multinazionale britannica metalmeccanica: il sito produttivo di Campi Bisenzio produceva componenti di automobili per la Fiat, prima di passare nel 1994 alla nuova proprietà. Società per azioni quotata in Borsa, nel 2018 è stata comprata da Melrose Industries, una società a responsabilità limitata britannica fondata nel 2003, quotata anch’essa in Borsa.

Chi la possiede?

Fra i maggiori azionisti ci sono Capital Research & Management, una società che fa parte di un conglomerato finanziario – Capital Group – di 67 aziende e Select Equity Group, società finanziaria che vanta un portafoglio di 30 mld di dollari. Sempre tra gli azionisti, troviamo anche Vanguard Group e BlackRock, due dei più grandi fondi finanziari al mondo. Ognuna di queste società è posseduta e ne possiede altre, rendendo l’assetto proprietario ultimativo un labirinto inesplorabile, complesso e opaco.

Come agiscono questi soggetti finanziari?

L’obiettivo di realizzare profitti avviene non attraverso un processo produttivo ma con la capitalizzazione in Borsa e l’emissione di obbligazioni.  Non si ha né interesse né reali competenze per un processo produttivo. Non importa cosa si produce, il valore reale del bene o servizio che diventano una realtà concreta, ma come si finanzia e con quale cifra si remunerano i soldi investiti. Ai padroni del fondo non importa l’investimento duraturo nel tempo. Entrano nelle aziende e ristrutturano con l’obiettivo di vendere al più presto a un prezzo più alto di quanto hanno pagato.

Se dei quattro fattori della produzione – capitale, management, materie prime e lavoro – considero e supervaluto solo i primi due (capitale e management), l’equilibrio si tiene solo se sottopago e sfrutto i secondi due (persone e natura).

Al comando del fondo Melrose troviamo due ricchissimi signori britannici, il Simon Peckam (Ceo), che nel 2014 guadagnava 2000 volte più del salario minimo inglese, e Chistopher Miller (Vice Presidente). Solo pochi mesi prima di dare il via ai licenziamenti, questi due signori hanno venduto rispettivamente 4 milioni e 8,7 milioni di titoli, incassando 7 e 15 milioni di sterline (portando a casa, con un solo click sul computer, più del costo annuo dell’intero personale licenziato).

Quando sentiamo governi, politici e mass media ripetere il mantra del «non bisogna spaventare i mercati» e del «bisogna attrarre gli investitori», ricordiamoci di chi stiamo parlando.

Siamo di fronte a un bivio: da una parte un mondo basato sull’anomia degli algoritmi finanziari, dall’altra la vita di 500 famiglie, il destino di una comunità e di un pezzo di ciascuno di noi.

Oggi a Firenze in tante e tanti diremo qual è la società in cui vogliamo vivere.