La riforma della giustizia non arriverà in aula domani. La commissione Giustizia ha dato mandato al presidente Perantoni di scrivere a Fico chiedendo di fissare una nuova data. Il testo approderà dunque alla fine della prossima settimana, anche se il giorno preciso è da definire. Si avvierà la discussione generale ma dopo l’incardinamento scatterà subito una sospensiva. La settimana cerchiata in rosso è la prima di agosto ma è lo stesso Pd a insistere perché la partita si chiuda in quella stessa settimana. «Il Pd vuole che la riforma si faccia rapidamente. Con pochissimi ritocchi può essere approvata prima della pausa estiva», dichiara il segretario Letta aprendo un varco per consentire a Conte di rientrare in gioco uscendo dal vicolo cieco nel quale si era infilato. Ma non intende spalleggiare il promesso alleato nel tentativo di abbattere la riforma.

Ci sono dieci giorni o poco più per risolvere un rebus tra i più complicati. A guardare quel che si muove sul palcoscenico, in realtà, una soluzione non sembra a portata di mano. Tra la magistratura e la ministra della Giustizia è scontro sempre più aperto. Dopo la sortita di Gratteri e de Raho, in attesa che si esprima il Csm che darà pareri diversificati, ieri è tornata all’attacco l’Anm, con un comunicato della Giunta che ribadisce le critiche già sollevate in commissione: «La soluzione messa in campo non contiene una misura acceleratoria, capace di assicurare un durata ragionevole, ma un meccanismo eliminatorio di processi». È la linea del Piave dei togati, sulla quale convergono i 5S: l’improcedibilità va cancellata. L’Anm bersaglia anche preventivamente l’ipotesi, per ora non trasformata in norma, di affidare al Parlamento il compito di stabilire di anno in anno la su quali reati indagare per primi: «I pm debbono perseguire tutti i reati indistintamente e in egual misura». Parole costituzionalmente sante, ma essendo impossibile tradurre in pratica il dettato l’obbligatorietà si risolve in discrezionalità delegata ai pm stessi.

La guardasigilli però non arretra di un passo e nel question time alla Camera risponde, senza citarli, a Gratteri e de Raho: «Si è detto che i processi per mafia e terrorismo andranno in fumo. Non è così perché i procedimenti puniti con l’ergastolo non sono soggetti all’improcedibilità e per i reati più gravi si prevede un termine di proroga». Risposta che non soddisfa nemmeno un po’ i 5S: «Solo una piccola parte dei processi per mafia riguarda reati da ergastolo. Invece devono arrivare tutti a conclusione». A ritirare i quasi 4mila emendamenti, 80 reali, gli altri ostruzionistici, i 5S per ora non ci pensano proprio. La Ue, in compenso, resta in campo e spinge a favore della riforma. Da Bruxelles fanno sapere che il termine della fine di quest’anno fissato per il varo deve essere rispettato e sottolineano che il problema dell’eccessiva durata dei processi non riguarda solo la giustizia civile ma anche quella penale.

Un accordo sembra dunque impossibile. La ministra mette però in campo per la prima volta un’ipotesi che somiglia come un clone a quella proposta dal Pd in uno dei suoi emendamenti: una norma transitoria valida sino a tutto il 2024. Nel triennio in questione i termini prima dell’improcedibilità sarebbero di tre invece che di due anni per l’appello e di un anno e mezzo invece che di un anno per la Cassazione. Al regime fissato dal testo Cartabia si arriverebbe solo nel 2025 e in mezzo ci sarebbe il tempo necessario per potenziare la digitalizzazione e procedere con le nuove assunzioni.

Il Pd naturalmente sarebbe entusiasta di questa soluzione. I 5S molto probabilmente no. La rifiuterebbero ma a quel punto il governo metterebbe la fiducia, che comunque in un modo o nell’altro ci sarà. Se andrà così Conte non sceglierà la rottura e, pur scontando qualche defezione, il grosso dei deputati 5S lo seguirà. Certo con la promessa di riprendere la battaglia in autunno al Senato, dove però i numeri sono ancora più sfavorevoli ai 5S. I conti con la disfatta sul fronte principale Conte e il suo partito dovranno farli a quel punto.